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 2015  settembre 07 Lunedì calendario

IL PIANO JUNCKER AI BLOCCHI DI PARTENZA OBIETTIVO 315 MILIARDI DI INVESTIMENTI

BRUXELLES – Dopo quasi un anno di preparativi, è pronto a partire il piano Juncker per gli investimenti in Europa: 315 miliardi previsti per centinaia di progetti in tutti i 28 Paesi da qui a tre anni nei settori più diversi, dalle infrastrutture alle start-up e alle piccole imprese. A gestire le iniziative sarà la Bei che si baserà su una forte cooperazione con le banche di sviluppo nazionali, per l’Italia la Cdp. Non mancano però i dubbi sulla fattibilità dell’intero programma: la base di partenza è infatti costituita da un fondo di dotazione di soli 21 miliardi.
Come in tutte le vicende comunitarie i tempi sono piuttosto lunghi. Il piano Juncker da 315 miliardi destinato a risolvere la cronica carenza di investimenti in Europa, vista come causa prima della stagnazione economica che interessa tutto il continente, è stato annunciato il 26 novembre dell’anno scorso. L’Ecofin l’ha approvato il 17 febbraio. La commissione ha varato il sofferto emendamento al bilancio per finanziarlo l’8 maggio. La Banca europea degli investimenti, che sarà il braccio operativo del piano, ha sottoscritto ufficialmente l’accordo con la commissione il 20 luglio. Lungo tutta l’estate ha preso il via l’European fund for strategic investments (Efsi), che sarà una delle nuove sigle con cui dovremo diventare familiari dopo l’Esm, l’Efsf e via dicendo, e che identifica il pool di denaro affidato materialmente alla Bei. Ora finalmente, nella seconda metà di settembre il piano dovrebbe diventare operativo. Parte con un carico non indifferente di perplessità e distinguo, ma insomma sembra proprio che ci siamo. Vediamo allora per punti di cosa si tratta.
Il progetto. Negli ormai sette anni dell’inizio della crisi finanziaria gli investimenti fra pubblici e privati sono scesi del 20% in Italia, del 45% in Spagna, del 18% in Olanda e del 17% nella media europea. Nella stessa Germania, malgrado il vistoso surplus, non sono aumentati più del 4%, e del 2% in Francia. Nel complesso, secondo i calcoli della commissione, la perdita di investimenti è stata pari a 550 miliardi fra il 2007 e il 2014. «Erano anni che si chiedeva un deciso intervento europeo», ricorda Fabrizio Saccomanni, ministro del Tesoro fino al febbraio 2014 e oggi docente alla Luiss. «Il problema è che il piano che infine è stato varato probabilmente doveva essere di dimensioni maggiori visto che deve rilanciare gli investimenti e insieme colmare il gap infrastrutturale che esiste in tutta Europa, Germania compresa. E poi doveva essere accompagnato da una serie di disposizioni per integrare mercati quali l’energia, i trasporti, le telecomunicazioni. Tutti settori che continuano ad avere regole e specifiche diverse nei vari Paesi, il che complica la possibilità di investimenti transnazionali».
Oltretutto, sulle reali dimensioni del progetto esistono diffuse perplessità. La cifra di 315 miliardi in tre anni è il punto di arrivo, ma il punto di partenza è molto lontano: il fondo di dotazione è infatti di non più di 21 miliardi, 16 dal bilancio Ue e 5 da quello della Banca europea degli investimenti (Bei), che avrà il ruolo operativo di tutta l’operazione. A regime, il piano Juncker costituirà un quarto delle attività della Bei (80 miliardi di finanziamenti nel 2014), presso la quale il fondo Esfi di cui si parlava all’inizio è “alloggiato”. Senonché i 16 miliardi della Ue sono sì impegnati ma verranno erogati su base triennale, poco più di 5 l’anno, e inoltre non sono se non in minima parte denari “freschi” bensì “ritagli” di varie voci di bilancio, compresi i fondi regionali strutturali (che sono tutta un’altra partita).
In ogni caso, la chiave è l’effetto-leva. Tutti gli investimenti saranno cofinanziati pubblico-privati e per una lunga lista di progetti che altrimenti non sarebbero potuti partire per carenza di finanziamenti privati si confida nel fatto che gli imprenditori siano incoraggiati dall’essere in compartecipazione con la Bei (tipicamente la quota europea sarà del 15-20% ma si potrà arrivare in qualche caso fino al 50%). Per di più questa garantisce la “prima perdita”: se il progetto va male la Bei coprirà le perdite fino all’ammontare del suo intervento. Va aggiunto che i 21 miliardi del “fondo Juncker” sono una posta di bilancio della Bei “sotto la linea”: non incidono cioè, se ci dovessero essere perdite considerevoli, sullo stato patrimoniale della banca, che così non rischia di perdere la sua tripla A di rating e quindi potrà entrare in operazioni ragionevolmente più rischiose senza pericoli. «Ci sono diversi motivi per essere scettici, questo non sarà lo sperato “Growth Pack”, però il cambiamento di direzione rispetto all’ortodossia di marca tedesca che vedeva nel rigore di bilancio l’unico parametro di riferimento, è rimarchevole », commenta Rainer Masera, anch’egli ex-ministro economico (del Bilancio nel governo Dini del 1995-96). «Se il piano riuscirà, sarà uno dei pilastri della ripresa europea a fianco dell’Unione Bancaria, delle misure monetarie della Bce e della Capital Markets Union che è in preparazione. Né va sottovalutata la scossa per l’efficienza: in diversi Paesi europei fra cui l’Italia, in media solo metà degli investimenti sostenuti nel settore pubblico si traduce in accumulazione di asset produttivi a causa di inefficienze, sprechi, corruzione e criminalità organizzata».
Come funziona. Alla Bei possono essere inviate domande di cofinanziamento a valere sull’Efsi in un’ampia serie di settori, dalle infrastrutture (trasporti, energia, digitale) alla formazione, dalla salute alla ricerca e sviluppo, fino a iniziative ancora più innovative realizzate da piccole imprese. I progetti verranno vagliati con un doppio livello di governance dallo steering board e dall’investiment committee della Bei, in ognuno dei quali ci sarà una solida rappresentanza della commissione Ue nonché degli Stati membri. Un’attenzione tutta speciale sarà riservata come si diceva alle piccole imprese, alle quali è previsto che siano destinati 75 miliardi dei 315 complessivi. È cruciale accrescere il ruolo delle Pmi nei finanziamenti europei perché, a differenza di quanto si crede, è opinione diffusa presso l’Unione europea che nelle imprese minori ci sia una maggior reattività dal punto di vista occupazionale. Le Pmi sono le prime a licenziare quando la congiuntura si fa negativa ma anche le prime ad assumere quando si intravvede la crescita. In particolare per le piccole imprese, la Bei gestirà l’Efsi in congiunzione con il Fei (Fondo europeo degli investimenti), un altro degli strumenti di cui già dispone e che è specializzato appunto nei finanziamenti ai progetti delle imprese minori ed è dotato di una robusta task-force di 300 fra ingegneri e tecnici (più del 10% della forza lavoro complessiva della Bei) in grado di svolgere tutta la consulenza necessaria a compensare l’incapacità progettuale che è uno dei punti deboli delle Pmi (ma anche delle amministrazioni pubbliche alle quali pure si rivolge quest’unità di advisory).
Il problema è ancora una volta la necessità di una massiccia compartecipazione dei privati nei progetti prescelti. Qui un elemento favorevole può essere l’attuale situazione globale: ovunque i tassi sono bassissimi, e ora sta aumentando il rischio di investire in tanti Paesi a partire da Cina, Russia e Brasile. Visto che questa partecipazione privata avverrà spesso a fronte dell’emissione di titoli, operazione per operazione, recanti un interesse proporzionale alla rischiosità dell’investimento ma comunque più alto dei tassi correnti di mercato, un investitore potrà essere interessato a investire qui anziché altrove, tanto più che c’è la garanzia della Bei. «La situazione è più favorevole rispetto a qualche anno fa", ricorda Angelo Baglioni, economia della Cattolica di Milano e della voce.info.
Eugenio Occorsio, Affari&Finanza – la Repubblica 7/9/2015