Varie, 8 settembre 2015
Bolshoi per Sette – «Gestire il balletto del Bolshoi è come essere in guerra, come camminare su un campo minato
Bolshoi per Sette – «Gestire il balletto del Bolshoi è come essere in guerra, come camminare su un campo minato. Ti piacerebbe saltarlo, ma non sai se anche il punto in cui atterrerai sarà minato» (il direttore artistico Sergei Filin). Sergei Filin, 44 anni, tre figli, sposato con una ballerina del Bolshoi, ballerino a sua volta nel teatro, in cui è stato stella indiscussa per 20 anni. Nominato direttore della compagnia di balletto nel 2011, nel 2013 è stato attaccato fuori dalla sua casa da un uomo che gli ha lanciato in faccia una miscela di acido, liquido della batteria dell’auto e urina. In parte sfregiato, ha perso la vista all’occhio sinistro, mentre il destro è gravemente compromesso. Per l’attacco a Filin è in carcere Pavel Dmitrichenko, un ballerino della compagnia, e due complici: voleva vendicarsi con il direttore artistico perché la sua fidanzata ballerina sarebbe stata scavalcata nell’assegnazione dei ruoli per colpa di Filin. Altri fattacci avvenuti al Bolshoi: la prima ballerina ribelle Anastasia Volochkova licenziata perché troppo grassa; i ricatti al direttore Yanin, dimessosi dopo la diffusione di suoi scatti privati omosessuali; la fuga del coreografo Ratmansky che sulla sua pagina Facebook denunciò la «totale assenza di moralità» del teatro; la ballerina americana Joy Womack che ha lasciato la compagna accusando l’amministrazione di dare parti ai danzatori dietro pagamento di tangenti in sesso o denaro. Bolshoi in russo vuol dire “grande”. Era un termine con cui si definivano i teatri per l’opera e il balletto, considerati più prestigiosi della prosa, relegata nei teatri piccoli. Costruito da Osip Bove sulle ceneri di un precedente teatro distrutto da un incendio, inaugurato nel 1825. Era secondo, per dimensioni, soltanto alla Scala di Milano. Raso al suolo da un incendio, nel 1856 venne ricostruito in pochi mesi per celebrare l’incoronazione dello zar Alessandro II. Fu chiamato l’architetto Alberto Cavos, di genitori veneziani, che lo progettò come fosse la pancia di un violino. Per anni fu considerato la cassa acustica migliore del mondo. Trasformato dopo la rivoluzione in una grande sala riunioni, ospitò nel luglio del 1918 il V congresso del Partito Comunista, in cui tutti i socialisti rivoluzionari che si erano opposti a Lenin furono braccati tra palchi e platea per essere arrestati. Nel 1922, di fronte all’ex Palco dello Zar, fu proclamata la nascita dell’Unione Sovietica. Dal 2005 al 2011 è rimasto chiuso per restauri: non aveva fondamenta e poggiava su basi sabbiose. Si è scavato per 26 metri per trovare la roccia su cui ancorare i 2.000 pali d’acciaio che ora costituiscono le radici del teatro. Sono stati estratti quasi a mano 175mila metri cubi di detriti. Al restauro hanno lavorato più di 3.000 persone che hanno riportato in luce l’aspetto di epoca zarista. Le aggiunte di età sovietica, che adattarono la sala dall’acustica perfetta a sede per congressi di partito: le decorazioni, in cartapesta dorata per non alterare il suono, e in pino raro, sostituite da gesso, plastica e polistirolo. Negli anni Cinquanta qualcuno colmò di cemento il cilindro di risonanza sotto la fossa. Durante il restauro, per rivestire gli arabeschi dei palchi e delle balconate, sono stati usati 900mila metri quadrati di foglie d’oro. Costo del restauro: più di mezzo miliardo di euro, 16 volte il preventivo. La sala Imperiale ha 1.740 posti. Colori dominanti rosso e oro. Sono state ripristinate le decorazioni in cartapesta. Nella buca dell’orchestra entrano 170 musicisti. Il corpo di ballo è formato da 300 ballerini. Età media: 20-25 anni. Il lampadario della sala Imperiale: 25mila cristalli. Peso: più di 2 tonnellate. La sala Imperiale, rivestita da decine di chilometri di tessuti italiani. Italiana anche la tappezzeria del sipario, ricamato con 500 chili di filato d’oro. Il pavimento cambia secondo le esigenze: più elastico per i balletti, più rigido per l’opera. Per i pavimenti esiste nel teatro un deposito. Prima del restauro, sulla sinistra del palcoscenico c’era il cosiddetto «palco di Stalin». Qui, riparato dagli sguardi della platea, il dittatore georgiano, melomane, veniva ad assistere agli spettacoli preferiti. Solo gli artisti, in scena, potevano vederlo. E il pubblico si sforzava di intuire, dall’emozione di cantanti e ballerini, se fosse presente. Secondo una delle tante leggende moscovite, dopo la morte del dittatore nessuno occupò più il suo palco. Il “foyer degli zar”, riservato alla famiglia imperiale e poi ai leader comunisti, gestito direttamente dal Kgb. Si articolava su tre livelli. Al piano terreno c’era l’ingresso, sul lato sinistro del palazzo, protetto da una tettoia di ferro battuto. Subito sulla destra si aprivano stanze riservate al personale di guardia e alla scorta. Di fronte, un ascensore, installato ai tempi della lunga malattia di Breznev, conduceva ai piani superiori. Da qualche parte, nei recessi del grande teatro, funzionavano anche cucine speciali, gestite dal servizio presidenziale, che servivano spuntini e rinfreschi preparati per il leader e i suoi ospiti. Emanuele Macaluso a Mosca assistette a un balletto che durava quattro ore: «Eravamo in un palco reale con Krusciov e la moglie Nina. All’intervallo ci invitarono a bere qualcosa. Un caffè, speravamo. Invece era stato allestito un banchetto. I russi mangiavano quattro uova fritte a testa, accompagnandole con tartine al caviale e bevendo vodka come se fosse acqua». Nell’area riservata ai dirigenti comunisti c’era anche una sala riunioni, da cui si accedeva a una stanzetta senza finestre, occupata da un’enorme scrivania rivolta verso il muro su cui erano disposti una serie di telefoni bianchi privi di numeri e di pulsanti. A ogni telefono corrispondeva una linea riservata. Racconta Alesja Shuzhiraskaja, ex ballerina al Bolshoi, che negli anni Settanta-Ottanta, quando andavano in tournée, cercavano di non spendere nemmeno un soldo dei 15 dollari di diaria giornaliera che ricevevano. Con quello che risparmiavano compravano profumi, jeans e dischi d ausare come merce di scambio una volta rientrare in patria. Per mangiare, si portavano il cibo da casa, in valigia. Ancora Shuzhiraskaja: «Mi davano due biglietti omaggio per ogni rappresentazione. Il prezzo era alto ma soprattutto le code infinite. Quei tagliandi erano oro puro. Con soli quattro biglietti regalati a ginecologo e ostetrica ho rimediato un trattamento da regina per il mio primo parto. Con meno di una decina, ho ricevuto per mesi forniture alimentari introvabili al bancone dei negozi». Maya Plisetskaya, diva indiscussa del Bolshoi. Eppure suo padre, ingegnere e console, fu imprigionato e fucilato nel 1938 con l’accusa di essere «nemico del popolo» durante le grandi purghe del regime di Stalin. Sua madre, Rachel Messerer, attrice di cinema muto, ebrea, fu deportata in un campo di concentramento in Kazakistan dal 1938 al 1941 come «membro di una famiglia di un traditore della patria»