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 2015  settembre 08 Martedì calendario

TRAFFICO D’AVORIO

Per rinnovare la sala dei mammiferi nordamericani l’American Museum of Natural History si affidò a George Dante. E quando morì la tartaruga Lonesome George, emblema delle Galapagos, fu chiamato sempre Dante a occuparsene. Eppure Dante, uno dei tassidermisti più rispettati del mondo, non ha mai fatto ciò che gli ho chiesto. A dire il vero, nessuno si è mai cimentato in un’impresa simile.
Ho chiesto a Dante di realizzare una zanna d’elefante artificiale che abbia l’aspetto e la consistenza delle zanne confiscate che ho avuto in prestito dal Fish and Wildlife Service degli Stati Uniti. E non solo. Vorrei che Dante nascondesse al suo interno un dispositivo di tracciamento Gps realizzato appositamente. Se dovesse riuscirci, gli chiederò di costruirne altre simili. Nel mondo della criminalità, l’avorio funziona come una valuta, quindi è come se stessi chiedendo a Dante di stampare banconote contraffatte che io possa localizzare.
Userò le zanne per dare la caccia a coloro che uccidono gli elefanti e per seguire i movimenti dell’avorio, capire da quali porti viene spedito, su quali navi viaggia, quali città e quali paesi attraversa e dove va a finire. Le zanne artificiali lasciate in un paese dell’Africa centrale si dirigeranno a est – oppure a ovest – verso una costa da cui possano raggiungere i mercati asiatici con un mezzo di trasporto affidabile? Andranno a nord, seguendo l’itinerario più violento su cui viaggia l’avorio nel continente africano? Oppure non andranno da nessuna parte, perché una persona onesta le scoprirà e le consegnerà alle autorità?
Per verificare l’autenticità dell’avorio, i trafficanti graffieranno la superficie della zanna con un coltello o la scalderanno con un accendino; l’avorio è come un dente, non si scioglie. Le mie zanne dovranno superare la prova. «E dovrò studiare un modo per farle brillare», aggiunge Dante, pensando alla lucentezza di una zanna d’avorio pulita.
«Ho bisogno anche delle linee di Schreger, George», proseguo, riferendomi ai tratti incrociati che si osservano sulla sezione di una zanna segata e somigliano agli anelli di crescita di un tronco.
Gli elefanti africani sono sotto assedio. L’insaziabile fame d’avorio della classe media cinese in forte crescita, la disastrosa povertà dell’Africa, un sistema di applicazione delle leggi debole e corrotto e le armi sempre più efficaci usate per colpire i pachidermi hanno creato la tempesta perfetta. Risultato: ogni anno vengono uccisi almeno 30 mila elefanti africani (più di 100 mila tra il 2009 e il 2012) e il ritmo della strage non rallenta. La maggior parte dell’avorio di contrabbando finisce in Cina, dove un paio di bacchette d’avorio può fruttare più di mille dollari e le zanne intagliate vengono vendute a centinaia di migliaia di dollari l’una.
Oggi l’Africa orientale è l’epicentro del bracconaggio. A giugno il governo della Tanzania ha dichiarato che negli ultimi cinque anni il paese ha perso il 60 per cento dei suoi elefanti, che da 110 mila sono passati a meno di 44 mila. Nello stesso arco di tempo nel vicino Mozambico la popolazione di elefanti è diminuita del 48 per cento. Gli abitanti del luogo uccidono i pachidermi in cambio di contanti, assumendosi un rischio tutto sommato relativo visto che anche nel caso in cui siano arrestati vanno incontro a pene lievi. Ma in Africa centrale, come ho avuto modo di scoprire personalmente, la strage di animali ha ragioni più sinistre: gli elefanti sono il bersaglio di gruppi di miliziani e di terroristi, finanziati in parte dall’avorio, che provengono da altri paesi e arrivano persino a nascondersi nei parchi nazionali. Depredano i villaggi, riducono in schiavitù la gente e uccidono i guardiaparco che tentano di fermarli.
Sud Sudan. Repubblica Centrafricana (RCA). Repubblica democratica del Congo (RDC). Sudan. Ciad. E da queste cinque nazioni, tra le meno stabili del mondo secondo uno studio dell’associazione Fund for Peace con sede a Washington, che provengono gli uomini che uccidono gli elefanti di altri paesi. In più di un’occasione, il viaggio conclusosi con le stragi più terrificanti ha avuto origine in Sudan, un paese che non ha più elefanti ma protegge le bande di terroristi-bracconieri stranieri ed è la patria dei Janjawid e di altri predoni attivi in tutto il continente.
Spesso i ranger sono le uniche forze schierate contro i killer. Pochi e mal equipaggiati, combattono in prima linea in questa guerra violenta che riguarda tutti noi.

LE VITTIME DEL GARAMBA
Il Parco nazionale di Garamba, nella zona nord-orientale della Repubblica Democratica del Congo, al confine con il Sud Sudan, è patrimonio dell’Umanità dell’Unesco ed è famoso in tutto il mondo per gli elefanti e le distese oceaniche di vegetazione. Eppure quando chiedo a un gruppo di bambini e anziani del villaggio di Kpaika, a circa 50 chilometri dal confine occidentale del parco, quanti di loro abbiano visitato il Garamba, nessuno alza la mano. E quando domando: «Quanti di voi sono stati rapiti dall’LRA?» capisco il perché.
Padre Ernest Sugule, il prete del villaggio, mi racconta che molti bambini della sua diocesi hanno visto morire i loro familiari per mano dell’Esercito di resistenza del Signore (Lord’s Resistance Army o LRA), il gruppo ribelle ugandese guidato da Joseph Kony, uno dei terroristi più ricercati dell’Africa. Sugule ha fondato un’associazione che assiste le vittime della banda di Kony. «Ho conosciuto più di mille ragazzi che erano stati rapiti», spiega, mentre chiacchieriamo nella sua chiesa nella vicina città di Dungu. «Li rapiscono da bambini e li costringono a fare cose orribili. E quando tornano a casa sono molto, molto traumatizzati». Hanno incubi continui, prosegue il sacerdote. Rivivono il passato. I loro stessi familiari li considerano alla stregua di diavoli o di soldati e temono di essere uccisi di notte. Nella stragrande maggioranza dei casi le ragazze sono state stuprate e quindi per loro è diffìcile trovare marito. Talvolta la gente dei villaggi si diverte a insultare quelli che sono tornati con la stessa espressione usata per definire gli uomini di Kony, “Tango Tongo”, cioè i “taglia taglia”, un riferimento, precisa Sugule, al brutale uso dei machete da parte dei miliziani.
Kony, che da bambino ha persino fatto il chierichetto in chiesa, dichiara che la sua missione è spodestare il governo ugandese in nome del popolo settentrionale degli Acholi, e di governare il paese secondo la sua personale interpretazione dei dieci comandamenti. Dagli anni Ottanta, a partire dall’Uganda, i seguaci di Kony si sono macchiati di crimini orribili, hanno ucciso decine di migliaia di persone, mutilato labbra, orecchie e seni alle donne, stuprato donne e bambini, tagliato i piedi a chi veniva sorpreso in bicicletta e rapito i più giovani per creare un esercito di bambini soldato addestrati a diventare spietati assassini.
Nel 1994 Kony lasciò l’Uganda e sguinzagliò la sua gang omicida per le strade del continente. Spostandosi dapprima in Sudan, inaugurò la tattica dei continui attraversamenti del confine che ancora oggi rende difficile localizzarlo. All’epoca il Nord e il Sud del Sudan erano lacerati dalla guerra civile e Kony propose al governo di Khartoum una strategia per destabilizzare i rivali. Per dieci anni Khartoum lo rifornì di cibo, medicine e armi, inclusi fucili automatici, cannoni contraerei, lanciarazzi e mortai. È stato grazie al gruppo Invisible Children e al suo video Kony 2012 che il leader dell’LRA è diventato famoso anche in Occidente. Negli Stati Uniti sia Bush che Obama hanno sostenuto gli sforzi compiuti per arrestarlo o ucciderlo. Nel 2008 il Dipartimento di Stato degli USA ha inserito Kony nella lista degli “Specially Designated Global Terrorist” e l’Unione Africana ha classificato l’LRA come organizzazione terroristica.
Quando il Nord e il Sud del Sudan siglarono un accordo di pace nel 2005, Kony dovette rinunciare all’ospitalità sudanese. Nel marzo del 2006 fuggì nella Repubblica Democratica del Congo e si accampò nel Parco nazionale di Garamba, che all’epoca ospitava circa 4.000 elefanti. Da lì Kony fece sapere di essere disposto a rappacificarsi con l’Uganda e mandò emissari nella città neutrale di Juba, nel Sud Sudan, per negoziare con i funzionari ugandesi. Nel frattempo lui e i suoi uomini continuavano a vivere indisturbati dentro e intorno al parco, protetti dal cessate il fuoco. Il suo esercito cominciò a coltivare ortaggi. Kony arrivò persino a invitare nel suo accampamento la stampa straniera per concedere interviste. Nel frattempo, violando la tregua, i suoi uomini entravano nella Repubblica Centrafricana e rapivano centinaia di bambini e di donne, destinate a diventare le loro schiave sessuali.
Padre Sugule mi presenta tre ragazze che siedono su un banco di legno della chiesa. Anche loro sono state vittime dell’LRA. Geli Oh, 16 anni, ha trascorso più tempo insieme all’esercito di Kony rispetto alle due amiche, ben due anni e mezzo di orrori. Tiene sempre gli occhi bassi mentre le amiche parlano sottovoce tra di loro e sorridono. Geli si rianima quando sente la parola “elefanti”. Ne ha visti tanti, racconta, nel Parco nazionale di Garamba, dove è stata portata dai rapitori. Un giorno i Tongo Tongo hanno ucciso due elefanti, aggiunge. «Più ne uccidi, dicono, più avorio prendi».
L’esercito di Kony, che nel 1999 vantava addirittura 2.700 soldati, oggi pare sia ridotto a uno zoccolo duro che conta dai 150 ai 250 combattenti. Anche le uccisioni di civili sono diminuite dalle 1.252 del 2009 alle 13 del 2014, ma i rapimenti sono di nuovo in aumento e l’arrivo di pochi miliziani armati è sufficiente per scatenare il panico in una comunità.
Nei villaggi che si susseguono lungo la strada tra la chiesa di Padre Sugule e il Sud Sudan incontro vittime di Kony che raccontano di aver mangiato carne di elefante e di aver visto i soldati prendere l’avorio.
Per portarlo dove?

L’UOMO CHE RISOLVE I PROBLEMI
Per seguire il viaggio delle mie zanne artificiali dalla giungla alla destinazione finale ho bisogno di un dispositivo di tracciamento capace di localizzarle continuamente. Deve essere resistente e delle dimensioni giuste per entrare nelle cavità che George Dante scaverà nei blocchi di resina e piombo modellati a forma di zanne. Quintin Kermeen, 51 anni, che vive in California, ha le credenziali giuste. Kermeen si occupa di radio-tracking da quando aveva 15 anni. Da allora ha realizzato localizzatori per animali selvatici, dagli orsi andini ai condor della California, passando per i diavoli della Tasmania. Ci incontriamo via Skype.
«Devi avere una vera passione per gli animali», dico.
«Non sono un animalista», ribatte brusco. «Sono uno che risolve i problemi».
Rido. «Allora sei l’uomo che fa per me».
Dopo alcuni mesi, il dispositivo di tracciamento su misura di Kermeen mi arriva finalmente per posta. Consiste in una batteria che dura più di un anno, un ricevitore GPS, un ricetrasmettitore Iridium e un sensore di temperatura.
Mentre Dante si dà da fare per installare il dispositivo di Kermeen nel calco della zanna, il terzo componente del team, John Flaig, esperto di immagini scattate da palloni aerostatici – dalla stessa quota degli aerei da ricognizione – si prepara a monitorare gli spostamenti delle zanne. Utilizzando la tecnologia di Kermeen, può regolare il numero di volte giornaliere in cui i dispositivi tenteranno di comunicare con un satellite via Internet. Noi li seguiremo usando Google Earth.

«VOGLIO L’AVORIO PER COMPRARE MUNIZIONI»
L’11 settembre 2014 Michael Onen, sergente dell’esercito di Kony, si allontanò dal Parco nazionale di Garamba portando con sé un kalashnikov, cinque caricatori di cartucce e una storia da raccontare. È seduto davanti a me su una sedia di plastica in una stanza della base militare dell’Unione Africana di Obo, nella zona sud-est della RCA, in cui è detenuto. Insieme ad altri 40 miliziani, tra cui Salim, il figlio di Kony, Onen faceva parte di una spedizione di bracconieri dell’LRA mandata nel Garamba. Onen dice che l’operazione era stata voluta da Kony stesso. Durante l’estate il gruppo aveva ucciso 25 elefanti del parco e aveva poi intrapreso il viaggio di ritorno per portare l’avorio al leader.
Intorno a noi si aggirano i soldati ugandesi che compongono l’intero contingente dell’Unione Africana di stanza a Obo, impegnato nella ricerca e nell’uccisione di Kony. I militari trattano Onen come uno di loro, il che per certi versi è vero. L’uomo aveva 22 anni quando una notte del 1998 gli uomini di Kony assalirono il suo villaggio a Gulu, in Uganda, e lo strapparono via dal suo letto. Sua moglie, rapita successivamente, è stata uccisa.
Onen racconta che anziché seguire l’addestramento da soldato fu assegnato alle radiocomunicazioni segrete di Kony.
Durante le fallite trattative di pace con l’Uganda, svoltesi quando Kony rimase nascosto a Garamba dal 2006 al 2008, Onen fu incaricato di seguire il principale negoziatore dell’LRA Vincent Otti. Questi, ricorda Onen, amava gli elefanti e non ne permetteva l’uccisione. Ma quando Otti lasciò l’accampamento per partecipare ai negoziati Kony cominciò a fare strage dei pachidermi per fare incetta di avorio.
Otti si infuriò, prosegue il prigioniero. «Perché prendi l’avorio?», chiese a Kony. «Vuoi far saltare le trattative di pace?».
Secondo Onen, che ascoltava la comunicazione via radio, il leader rispose: «Voglio l’avorio per averne in cambio munizioni e continuare a combattere». «Per Kony avere l’avorio è come disporre di un conto in banca», spiega Marty Regan del Bureau of Conflict and Stabilization Operations del Dipartimento di Stato americano. All’arrivo a Garamba nel 2006, l’esercito di Kony aveva poche munizioni per continuare la guerra, mi racconta Onen. Il capo, ricorda ancora, aveva esplicitamente dichiarato che l’LRA poteva diventare più forte solo grazie all’avorio.
Invece di firmare l’accordo di pace, Kony fece uccidere il suo negoziatore.
Da Garamba Kony inviò un suo gruppo in Darfur per esplorare la possibilità di una nuova alleanza con le forze armate sudanesi (SAF), che lo avevano aiutato contro l’Uganda, nella speranza di scambiare l’avorio con lanciarazzi e altre armi. Nel frattempo, sempre secondo Onen, i miliziani nascondevano l’avorio sottoterra o dentro i fiumi. Il suo racconto è stato confermato dalle dichiarazioni di Caesar Achellam, ex capo dell’intelligence di Kony che adesso è prigioniero delle autorità ugandesi. Achellam mi ha raccontato che gli uomini di Kony sono accorti e previdenti, e seppelliscono scorte di acqua sigillate lungo le rotte di viaggio più aride. Lo stesso fanno con l’avorio, per metterlo al sicuro.
«Possono prendere ciò di cui hanno bisogno oggi e conservarlo per due, tre o persino cinque anni».
Alla fine le truppe ugandesi attaccarono gli accampamenti di Kony a Garamba sul finire del 2008. L’attacco aereo, denominato “Operazione lampi e tuoni”, fu condotto con la collaborazione della RDC, del Sud Sudan e degli Stati Uniti. Ma Kony e la sua leadership ne uscirono indenni. La reazione fu immediata e feroce. A partire dalla vigilia di Natale, i miliziani suddivisi in piccoli gruppi si misero ad assaltare i villaggi e a uccidere i civili. In tre settimane gli sgherri di Kony uccisero più di 800 persone e rapirono oltre 160 bambini. L’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite stima che il massacro abbia costretto alla fuga 130 mila congolesi e 10 mila sudanesi. Il 2 gennaio 2009 l’orrore colpì gli uffici centrali del Parco di Garamba, a Negero. I soldati di Kony incendiarono l’edificio, distrussero le attrezzature e uccisero almeno otto persone tra ranger e membri del personale.
Il racconto di Onen prosegue. Sei anni dopo quegli avvenimenti, era previsto che il gruppo di bracconieri di cui faceva parte consegnasse l’avorio a Kony, in Sudan, il 25 ottobre 2014. Il capo dei terroristi era stato categorico: «Non dovete perdere neppure una zanna», aveva detto al gruppo via radio. Secondo Onen il piano prevedeva che l’avorio fosse portato fino a un luogo prestabilito nella Repubblica Centrafricana e poi fino a Songo, una città mercato in Darfur, non lontano dalla guarnigione di Dafaq delle SAF.
Gli uomini di Kony, quindi, dovevano vendere l’avorio ai sudanesi, ricevendone in cambio sale, zucchero e armi. Il rapporto tra i due gruppi è chiaro: «Le SAF avvisano Kony in caso di problemi», afferma Onen.
Secondo lui, nel momento in cui stavamo parlando, la squadra dell’LRA da cui era fuggito si trovava ancora nella RCA ed era diretta in Sudan. Era ragionevole pensare che la defezione dell’addetto alle radiocomunicazioni avesse rallentato il cammino delle zanne dei 25 elefanti.
Forse potevo fare in modo che anche le mie zanne false arrivassero a Kony.

«LEI MENTE!»
Un funzionario dell’aeroporto internazionale di Dar es Salaam, in Tanzania – uno dei paesi che devo attraversare per mettere in atto il mio piano – guarda con sospetto l’immagine ai raggi X dei miei bagagli che passano attraverso lo scanner.
«Apra quella», mi ordina.
Obbedisco e apro la valigia con le due zanne artificiali e gli consegno le lettere del Fish and Wildlife Service degli Stati Uniti e di National Geographic che ne certificano la falsità. Intorno a noi si raccoglie una piccola folla. I funzionari puntano il dito e discutono. Quelli che guardano le zanne pensano che io sia un trafficante d’avorio. Chi osserva l’immagine ai raggi X da cui si vedono i dispositivi al loro interno, crede che io stia tentando di contrabbandare qualche ordigno esplosivo. Dopo oltre un’ora di animato dibattito, decidono di chiamare l’esperto di scienze naturali dell’aeroporto. Quando arriva, l’uomo prende una zanna e fa scorrere il dito sull’estremità tronca. «Linee di Schreger», sentenzia.
«Esatto», dico. «Le ho fatte...».
Mi punta un dito contro e urla: «Lei mente, bwana!» (l’equivalente in swahili di signore).
In dieci anni di lavoro non ha mai sbagliato, sostiene, le zanne sono autentiche. Vengo preso in custodia dalla polizia, passerò la notte su una panca. J. J. Kelley, produttore del National Geographic Channel, continua a discutere nella sala d’attesa. Chiede che mi venga data dell’acqua e viene accompagnato fuori dall’edificio. Quando ritorna, qualche ora dopo, porta tre cene a base di pollo e alcune bottiglie di birra offerte dal capo della polizia. Noi tre mangiamo insieme. Il mattino seguente vengo rilasciato dopo l’intervento dei funzionari dell’ambasciata americana e della Wildilife Division della Tanzania.
L’incidente all’aeroporto è stato uno dei tanti inconvenienti causati dalle zanne artificiali. Diversi funzionari tanzaniani che avevano contribuito al mio arresto all’aeroporto, incluso l’esperto di scienze naturali, si sono presentati il giorno dopo per augurarci buon viaggio. «Avete fatto il vostro lavoro», dico stringendo loro la mano.
È stato rassicurante vedere che le forze dell’ordine in Tanzania sono tanto vigili, perché il paese è forse tra quelli dove la caccia di frodo degli elefanti raggiunge i livelli peggiori, e la corruzione è molto diffusa. Nel 2013 Khamis Kagasheki, all’epoca ministro delle risorse naturali e del turismo della Tanzania, dichiarò che il traffico d’avorio «coinvolge una rete molto sofisticata di gente ricca e di uomini politici» e accusò quattro membri del parlamento tanzaniano di farne parte.

I GUERRIERI DEL GARAMBA
Tutt’intorno a me sento i clic delle armi automatiche che vengono caricate. Dagli uffici centrali del Parco di Garamba sono arrivato in aereo fino a una pista sterrata all’interno della riserva per unirmi a una pattuglia antibracconaggio. Raggiungiamo quello che per i ranger è il fronte settentrionale, un avamposto vulnerabile sia ai cacciatori di frodo sudanesi che all’esercito di Kony. Qui staziona in modo permanente un gruppo di ranger deputato a proteggere uno dei beni più importanti del parco: l’antenna radio ancora in via di costruzione.
Dopo l’attacco dell’LRA del 2008-2009, i guardiaparco hanno costruito nuovi uffici centrali e hanno acquistato due aerei e un elicottero. Ma sono sempre pericolosamente a corto di munizioni, insufficienti persino per l’addestramento, e l’arma più grande di cui possono disporre, una mitragliatrice alimentata a nastro, tende a incepparsi all’incirca ogni tre colpi. I ranger con cui andrò in pattuglia avranno una manciata di cartucce ciascuno per i loro kalashnikov vecchi e poco affidabili, quasi tutti sequestrati ai bracconieri.
Per otto ore camminiamo immersi nell’erba elefante alta e fitta, scendendo lungo burroni coperti di vegetazione, arrampicandoci su colline esposte al nemico, attraversando uno stagno di acqua fangosa che arriva fino alla vita. Tutte le volte che sente il rumore di un ramoscello che si spezza o percepisce un odore insolito, la guardia davanti a me, Agoyo Mbikoyo, fa un gesto per avvisarci del pericolo. Ci accovacciamo nell’erba e aspettiamo in silenzio. Penso ai soldati di Kony e agli altri gruppi armati che percorrono centinaia di chilometri in questa infinita cortina di erba per uccidere gli elefanti. Chissà se adesso sono da qualche parte qui vicino.
Di recente il problema degli elefanti uccisi a Garamba ha assunto proporzioni sconcertanti anche per gli standard africani. L’anno scorso i bracconieri ne hanno uccisi almeno 132, e finora (e siamo ancora a giugno) i ranger hanno scoperto altre 42 carcasse con fori di proiettili, oltre 30 delle quali attribuite a un’unica spedizione sudanese. In totale la perdita ammonta a oltre il 10 per cento dell’intera popolazione di elefanti del parco, stimata intorno ai 1.500 esemplari.
Da marzo 2014 a marzo 2015 i guardiaparco di Garamba hanno registrato 31 avvistamenti di bracconieri armati, oltre la metà dei quali faceva parte di gruppi che si spostavano in direzione sud provenendo dal Sud Sudan e dal Sudan. Tra questi, soldati dello SPLA (l’Esercito popolare di liberazione del Sudan) e militari sudanesi, oltre a una serie di disertori e ribelli vari. Anche i soldati congolesi minacciano il confine meridionale del parco e a volte gli elefanti vengono uccisi anche dagli abitanti dei villaggi limitrofi. E si pensa che qualcuno, non si sa bene chi, uccida i pachidermi dagli elicotteri, come dimostrano i fori di proiettile sulla sommità del cranio e i segni evidenti che le zanne sono state rimosse con una motosega.
«Secondo me le truppe ugandesi conducono operazioni all’interno di Garamba e ne approfittano per prendersi un po’ d’avorio», dice Jean Marc Froment (direttore del parco quando ho realizzato questo reportage). Ma, aggiunge, i bracconieri potrebbero appartenere allo SPLA, che usa lo stesso tipo di elicotteri di quelli visti sul parco. Un consigliere dell’esercito ugandese ha respinto le accuse, ipotizzando che i colpi alla testa possano essere stati sparati quando gli animali erano già per terra.
Dopo aver lavorato in tutta l’Africa centrale, Froment si è trasferito a Garamba all’inizio del 2014, quando i ranger avevano scoperto decine di carcasse di elefanti all’interno della riserva. L’incarico doveva essere temporaneo, ma davanti alla strage l’uomo non se l’è sentita di andare via. È cresciuto non lontano da Garamba, in un’epoca in cui era possibile sorvolare il parco e vedere raggruppamenti anche di 5.000 elefanti. Oggi è raro incontrare un branco che ne conti 250.
Froment usa la parola “guerra” per descrivere la lotta dei 150 ranger di Garamba contro i bracconieri. La direzione del parco avrebbe i fondi per dotare i suoi uomini di un equipaggiamento migliore, ma per comprare nuove armi è necessaria l’approvazione formale dell’esercito congolese che Froment non è riuscito a ottenere.
A circa metà del nostro giro di pattuglia ci imbattiamo in una macchia di vegetazione bruciata nei pressi del fiume Kassi, teatro di un recente conflitto a fuoco tra guardiaparco di Garamba e bracconieri dello SPLA, due dei quali sono rimasti uccisi. Trovo il frammento di un cranio umano e per un pelo non raccolgo una granata, che avevo scambiato per una piccola tartaruga. Era stata lanciata dai bracconieri durante la battaglia, mi raccontano i ranger, ma non era esplosa. Non ancora.
Tutta l’Africa centrale è una bomba innescata, che ha per detonatore una storia fatta di sfruttamento delle risorse da parte di paesi stranieri, dittature e povertà. «Il problema del bracconaggio non riguarda solo noi ma lo Stato», dice Froment. «Proteggiamo gli elefanti per proteggere il parco. E proteggiamo il parco per dare al popolo un bene di valore». Gli elefanti vanno difesi e tutelati perché senza di loro nessuno finanzierebbe il parco di Garamba – «il cuore dell’Africa», lo definisce Froment – che così andrebbe incontro a una triste fine. Il Garamba è un parco sotto assedio in un paese spesso dilaniato dalla guerra civile in una regione che ha quasi dimenticato la pace. Durante il giro di pattuglia non incontriamo né bracconieri né ribelli. Ma è solo una questione di tempo: alcuni mesi dopo, il 25 aprile 2015, Agoyo Mbikoyo è stato ucciso da una banda di bracconieri. A giugno sono morti altri tre funzionari di Garamba.

PIAZZARE LE ZANNE FALSE
Dopo la visita a Garamba, decido insieme a una fonte riservata che l’inserimento delle mie zanne nel mercato nero deve avvenire nei pressi di Mboki, un piccolo villaggio della Repubblica Centrafricana, a metà strada fra il Parco di Garamba e il Sudan, che è stato oggetto degli attacchi di Kony ed è anche il luogo in cui hanno trovato rifugio alcune persone fuggite dai campi di Kony. Secondo i dati immagazzinati nel GPS ritrovato addosso a Vincent Binany Okumu, un comandante dell’LRA ucciso nel 2013 in uno scontro con le truppe dell’Unione Africana mentre stava ritornando da una battuta di caccia di frodo nel Garamba, questo villaggio si trova lungo la rotta percorsa dall’avorio quando è diretto verso la base di Kony in Darfur.

BERSAGLI INCONSAPEVOLI
Erano passate da poco le quattro del mattino sulla collina di Heban, in Ciad, a 130 chilometri dal confine sudanese, 100 chilometri a nord-est del Parco nazionale di Zakouma, dove vive il più grande branco di elefanti rimasto in questo paese, composto da 450 esemplari. Sei ranger e il loro cuoco erano già svegli, avevano indossato la mimetica e si preparavano alla preghiera del mattino. Era la stagione delle piogge, e i ranger, come gli elefanti che proteggevano, avevano lasciato il parco per spostarsi in una zona più elevata.
Quando piove il parco diventa quasi un lago e i pachidermi si dividono in due gruppi per sfuggire alle inondazioni. Un gruppo si dirige a nord verso Heban, l’altro a ovest verso il Ciad centrale.
Gli uomini che si trovavano sulla collina di Heban non erano particolarmente preoccupati per la loro sicurezza. Avevano il compito di rilevare un altro team di colleghi che tre settimane prima, dopo un raid in un accampamento di bracconieri sudanesi, avevano sequestrato un migliaio di caricatori, telefoni cellulari con fotografie di elefanti morti in decomposizione, un telefono satellitare con un caricabatteria a pannelli solari, due zanne di elefante, i pantaloni di una tuta mimetica e una divisa con lo stemma degli Abu Tira, la famigerata unità centrale della polizia del Sudan, ritenuta responsabile di uccisioni di massa, aggressioni e stupri in Darfur. I guardiaparco avevano anche recuperato un permesso dell’esercito sudanese che autorizzava tre soldati a spostarsi dal Darfur a una città vicino al confine con il Ciad.
Dal 2002 il Parco nazionale di Zakouma ha perso quasi il 90 per cento dei suoi elefanti. La maggior parte – circa 3.000 – è stata uccisa tra il 2005 e il 2008. In quegli anni gruppi di bracconieri sudanesi, composti da oltre dieci uomini armati, si accampavano nel parco per mesi, arrivando a uccidere anche 64 elefanti in una singola battuta di caccia.
Nel 2008, quando la Wildlife Conservation Society ha introdotto la sorveglianza aerea, gli episodi di bracconaggio sono diminuiti, ma i criminali sudanesi hanno cambiato strategia e sono tornati ad agire in squadre di meno di sei uomini che penetravano nel parco dall’esterno per singole giornate di caccia.
Gli uomini credevano che dopo il raid dei loro colleghi i bracconieri fossero fuggiti tutti. Quella mattina, invece, erano nascosti tra gli alberi intorno al loro accampamento. I bracconieri aprirono il fuoco e ne uccisero cinque. Un sesto, una giovane sentinella, si precipitò giù dalla collina e scomparve. Si ritiene che sia morto. Il cuoco, anch’egli ferito, si trascinò per 18 chilometri prima di ricevere aiuto. Le prove trovate sul posto indicavano il coinvolgimento delle SAF del presidente Omar al-Bashir.

LA COMPLICITÀ DEL SUDAN
Nel 2012 almeno cento bracconieri provenienti dal Sudan e dal Ciad hanno attraversato a cavallo l’Africa centrale per raggiungere il Parco nazionale di Bouba Ndjidah, in Camerun. Allestito un accampamento, si sono scatenati per quattro mesi uccidendo 650 elefanti. I bracconieri appartenevano probabilmente alla tribù dei Rizeigat del Darfur, legati ai Janjawid, le violente milizie finanziate dal governo sudanese che tante atrocità hanno commesso in quella regione. Con tutta probabilità venivano dal Sudan e dal Ciad anche i responsabili dell’eccidio avvenuto nel 2013 nei pressi di Tikem, in Ciad, non lontano da Bouba Ndjidah, in cui furono ammazzati quasi 90 elefanti, tra cui 33 femmine incinte e alcuni cuccioli.
Il fatto che i militari sudanesi cedano armi all’LRA in cambio di avorio solleva dubbi sull’integrità delle massime cariche del governo sudanese. Nel 2009 Bashir è diventato il primo capo di Stato in carica a essere incriminato dalla Corte penale internazionale dell’Aia per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Nel presentare il caso, il procuratore capo Luis Moreno-Ocampo ha sottolineato come Bashir controlli i gruppi che si ritiene siano dietro il traffico d’avorio: «Si è servito dell’esercito, ha arruolato la milizia Janjawid. Tutti fanno capo a lui, gli obbediscono. Ha il controllo assoluto della situazione».
Michael Onen, il disertore dell’esercito di Kony, mi ha raccontato che l’LRA e i Janjawid litigano per l’avorio, derubandosi a vicenda. Pare inoltre che sia stato proprio il successo dei Janjawid nel traffico d’avorio a spingere Kony all’uccisione degli elefanti. Stando a Onen, l’LRA fa affari con le forze armate sudanesi.
Malgrado funga da rifugio sicuro per i trafficanti di avorio, come l’LRA, i Janjawid e altre bande di fuorilegge, il Sudan non è pubblicamente riconosciuto come uno Stato che sostiene il bracconaggio. La Convenzione sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora minacciate di estinzione (CITES), che monitora anche l’applicazione del divieto di commerciare l’avorio, ha identificato otto paesi “di primaria importanza” relativamente al traffico internazionale del prezioso materiale: Cina, Kenya, Malesia, Filippine, Thailandia, Uganda, Tanzania e Vietnam. Altri otto sono considerati di “secondaria importanza”: Camerun, Congo, Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Etiopia, Gabon, Mozambico e Nigeria. Altri tre sono classificati come “osservati speciali”: Angola, Cambogia e Laos. Il Sudan non è in queste liste, anche se i bracconieri di questo paese sono tra i principali responsabili delle uccisioni di elefanti in diverse nazioni elencate dalla Cites. È documentato, inoltre, che il Sudan rifornisce l’Egitto ed è oggetto di cospicui investimenti cinesi per la realizzazione di infrastrutture, che solitamente implicano la presenza di manodopera cinese, non estranea al contrabbando d’avorio in molte zone dell’Africa. Nei negozi d’avorio di Khartoum si leggono cartelli scritti in inglese e in cinese, oltre che in arabo. Secondo John Scanlon, segretario generale della Cites, il Sudan non compare nelle liste perché queste sono compilate soprattutto in base ai sequestri d’avorio e in anni recenti questo paese è stato collegato a poche operazioni del genere. A questo punto sorge spontanea una domanda: come e dove viene smistato l’avorio raccolto dai bracconieri sudanesi?

IL COVO DI KONY
Le mie zanne artificiali sono immobili da settimane, due gocce azzurre sulla mappa digitale della zona orientale della Repubblica Centrafricana che compare sul monitor del mio computer. Poi si spostano di alcuni chilometri. All’improvviso inizia un movimento costante verso nord, circa 20 chilometri al giorno, lungo il confine con il Sud Sudan, evitando le strade. Solo dopo 15 giorni entrano in Sud Sudan, e da lì riescono a penetrare nell’enclave di Kafia Kingi, un territorio conteso del Darfur controllato dal Sudan.
Kafia Kingi è un covo di Kony, tanto che nell’aprile del 2013 un gruppo di ONG, tra cui Invisible Children, Enough Project e Resolve, ha pubblicato un rapporto intitolato Hidden in Plain Sight: Sudan’s Harboring of the LRA in the Kafia Kingi Enclave, 2009-2013 (“Nascosti in piena vista: così il Sudan accoglie l’LRA nell’enclave di Kafia Kingi. 2009-2013”). «Non è certo un segreto, lo sanno tutti che Kony è in Sudan», dice Marty Regan, del Dipartimento di Stato. «Quello è il suo rifugio».
Alcuni giorni dopo le zanne si dirigono verso Songo, la città mercato sudanese dove, a detta di Onen, gli uomini di Kony vendono l’avorio. Lì le zanne rimangono per tre giorni in quella che sembra una radura fuori dalla città. Poi procedono per dieci chilometri in direzione sud, di nuovo a Kafia Kingi. Dopo tre settimane le zanne riprendono il viaggio verso nord, di nuovo in Sudan. Adesso si spostano più velocemente, continuano ad andare a nord per poi girare bruscamente verso est, in direzione di Khartoum.
Séléka, la violenta coalizione di ribelli che ha spodestato il governo della RCA il 24 marzo 2013, e la banda rivale degli anti-Balaka, hanno commesso massacri efferati contro i civili, bruciandoli vivi o gettandoli dai ponti, e hanno trasformato la Repubblica Centrafricana in uno Stato in preda all’anarchia: il luogo ideale per il gruppo di Kony e altre organizzazioni terroristiche. A maggio 2013 bracconieri sudanesi spalleggiati da Séléka hanno attaccato Dzanga Bai, un’oasi per elefanti all’interno del Parco nazionale di Dzanga-Ndoki, nella regione sudoccidentale del paese, uccidendo 26 pachidermi. Dzanga Bai, noto anche come il villaggio degli elefanti, è una radura con un corso d’acqua fangosa ricca di sostanze minerali che attira molti animali.
All’inizio di quest’anno Kony ha dovuto fare i conti con la defezione del suo comandante Dominic Ongwen. Ai militari dell’Unione Africana l’uomo ha raccontato che la presenza di Séléka ha accresciuto la brama d’avorio di Kony. Stando ai verbali del suo interrogatorio: “I ribelli di Séléka hanno avuto tutto il necessario per deporre il presidente Francis Bozizé vendendo una partita di circa 300 zanne d’avorio”. Secondo Ongwen, il capo dell’LRA intende raccogliere quanto più avorio possibile, «in modo da garantirsi la sopravvivenza nel caso in cui non riuscisse a spodestare il governo ugandese».
A detta di Ongwen, Kony vuole formare una nuova squadra per entrare in contatto con Boko Haram, il gruppo terrorista nigeriano responsabile di stragi e rapimenti di centinaia di donne e studentesse nigeriane. Anche Boko Haram si nasconde nella boscaglia, per l’esattezza nella foresta nigeriana di Sambisa, una riserva di caccia a sud del lago Ciad. Nel marzo del 2015 il leader Abubakar Shekau ha annunciato l’adesione di Boko Haram all’Isis e in virtù della nuova alleanza il suo gruppo è stato rinominato Provincia dell’Africa occidentale dello Stato Islamico. In questo modo i terroristi mediorientali hanno conquistato una testa di ponte in Africa occidentale.

E DOPO?
Nel momento in cui scrivo, l’ultimo segnale lanciato dalle mie zanne arriva dalla città sudanese di Ed Daein, oltre 800 chilometri a sud-ovest di Khartoum. So anche in quale casa si trovano: grazie a Google Earth, riesco a vederne il tetto azzurro. Sono conservate in un luogo con una temperatura di circa 1 °C inferiore rispetto all’ambiente. È probabile che siano sepolte nel cortile sul retro. Finora hanno percorso 950 chilometri dalla giungla al deserto in poco meno di due mesi. L’itinerario è coerente con quanto mi hanno riferito al riguardo i disertori di Kony. Quando leggerete questo articolo potrebbero essere arrivate a Khartoum. O forse potrebbero aver già raggiunto il più grande mercato di avorio illegale del pianeta: la Cina.
Intanto, mentre le autorità in Europa, in Medio Oriente e negli Stati Uniti studiano strategie per bloccare l’ampliarsi della rete di organizzazioni terroristiche internazionali, da qualche parte in Africa un ranger sta al suo posto di guardia con un kalashnikov e una manciata di proiettili, presidiando la prima linea di una guerra che ci riguarda tutti.