VARIE 7/9/2015, 7 settembre 2015
APPUNTI PER GAZZETTA - CHE SUCCEDE IN SIRIA
REPUBBLICA.IT
RENZI A PORTA A PORTA
Siria e Stato islamico. A seguire, l’annuncio: "In Siria l’Italia non partecipa a iniziative come quelle che Francia e Inghilterra hanno annunciato di studiare. Serve un progetto della comunità internazionale a lungo termine: un intervento spot serve o non serve".
HOLLANDE
PARIGI - La Francia invierà aerei militari in Siria. "Ho chiesto al ministro della Difesa di organizzare da domani voli di ricognizione sulla Siria, in vista di eventuali raid contro lo Stato islamico", ha detto il presidente francese François Hollande nel tradizionale incontro semestrale con la stampa.
"In Siria - ha detto Hollande davanti a circa 300 giornalisti - vogliamo sapere cosa si prepara contro di noi e cosa si fa contro la popolazione siriana. Per questo ho deciso di inviare questi aerei, in coordinamento con la coalizione". Il presidente ha escluso l’ipotesi di un intervento di terra delle truppe francesi perchè "sarebbe non conseguente e irrealista" , ha precisato il capo dell’Eliseo. "Significherebbe - ha aggiunto - trasformare un’operazione in una forza d’occupazione".
"Assad deve andar via". Poi il presidente ha rimarcato la sua posizione ostile al regime di Assad: "In Siria serve una soluzione, ma non può essere il mantenimento di Bashar al-Assad al potere". "Bashar al Assad ha sparato sul suo popolo, ha usato armi chimiche, è lui che ha rifiutato ogni discussione", ha continuato Hollande.
Migranti. Il presidente ha fatto il punto anche sulla situazione in Europa. Holland ha annunciato un viaggio in Libano per visitare i campi rifugiati e incontrare le autorità politiche locali. Ha sottolineato che la Francia accoglierà 60.000 richiedenti asilo nel 2015, secondo il piano che proporrà la Commissione Europea.
Iran: "Is dispone di centomila miliziani". Per il consigliere della Guida suprema per gli affari militari iraniani, Yahya Rahim Safavi, sono circa 100 mila gli uomini dell’Is che combattono nella regione occidentale dell’Asia prevalentemente Iraq e Siria - fra cui 5000 ceceni, pagati con un salario mensile di 200 dollari. Sono le stime del consigliere della Guida suprema per gli affari militari, gen. Yahya Rahim Safavi.Secondo Safavi, già comandante delle Guardie della rivoluzione, gli Usa sono responsabili della diffusione dell’Is nell’area.
Ieri - in una conferenza stampa con il suo collega ceco - il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif ha sottolineato che l’Iran combatte sempre contro la violenza e il terrorismo, ma purtroppo le politiche Usa hanno aggravato la situazione nella regione ed i loro alleati sostengono l’estremismo in modo diretto o indiretto. Rivolgendosi al segretario di stato Usa John Kerry, riferisce l’Irba, Zarif lo ha invitato a non parlare per venire incontro alle richieste di gruppi di pressione politica, ma di comprendere la vera realtà della regione e di agire in modo da non crearvi ulteriore caos
LASTAMPA.IT
Guerra aperta fra Turchia e guerriglia curda, più aerei di Paesi arabi nelle operazioni contro Isis e tecnologia satellitare americana per i jet sauditi: il conflitto in Siria-Iraq contro lo Stato Islamico si espande e vede un maggior coinvolgimento degli Stati della regione in coincidenza con la decisione di Parigi di iniziare i voli di ricognizione sulla Siria e con la scelta di Mosca di inviare propri contingente di truppe a sostegno del regime di Bashar Assad.
La guerra investe la Turchia
La causa è la decisione della guerriglia curda del Pkk di rispondere ai raid aerei di Ankara che, nell’ultimo mese, gli hanno causato almeno 500 perdite in Iraq e Siria. Il blitz del Partito dei lavoratori curdi (Pkk) è avvenuto nella notte scorsa nella provincia turca di Hakkari, ai confini con l’Iraq: si è trattato di un agguato con mine a due blindati di Ankara ed almeno 15 militari sono stati uccisi. Il Pkk parla di 31 “nemici eliminati”. Questa mattina la risposta del presidente Recep Tayyp Erdogan è arrivata, puntuale, con i raid dell’aviazione su almeno due basi del Pkk nella stessa regione. Ciò significa che il duello militare Turchia-Pkk riprende sotto forma di appendice al conflitto in atto in Siria e Iraq, dove Erdogan ha iniziato l’intervento aereo contro lo Stato Islamico (Isis) per dedicare in realtà la maggior parte delle risorse alla caccia al Pkk.
Cresce l’impegno dei Paesi arabi nella coalizione contro Isis
Il Qatar ha deciso di inviare i propri jet nelle basi in Turchia per colpire i jihadisti, con una scelta che costituisce l’ultima tappa del rovesciamento di posizione di Doha rispetto al 2014 quando venne sospettata dall’amministrazione di Washington di aver consentito l’invio di finanziamenti privati a favore del Califfo. Il governo di Baghdad da parte sua fa debuttare contro Isis gli F-16 ricevuti da Washington e parla di “svolta militare”.
- Hollande: siamo pronti a raid anti-Isis in Siria (Martinelli)
Il sostegno Usa all’Arabia Saudita
Gli Usa forniranno all’Arabia Saudita sistemi di puntamento hi-tech per aumentare l’efficienza degli attacchi aerei contro obiettivi di Isis. A deciderlo è stato il presidente Obama accettando una specifica richiesta del re saudita Salman, nell’incontro di venerdì alla Casa Bianca. In particolare, i jet sauditi avranno la tecnologia che consente di adoperare le comunicazioni satellitari per guidare una bomba sull’obiettivo, potendo così operare da maggiore distanza garantendo più sicurezza ai piloti.
DAVIDE FRATTINI SUL CORRIERE DI OGGI
Bashar Assad ha inaugurato un nuovo parco a Damasco, 9 mila metri quadrati, un po’ più grande di un campo da calcio, dedicati a Kim II-sung. Perché il dittatore che ha creato la Corea del Nord era amico di suo padre Hafez, perché i due regimi sono sempre stati alleati (i coreani l’hanno aiutato a costruire un centro atomico segreto distrutto da un bombardamento israeliano nel 2007), perché chiunque critica Kim per la sua brutalità «è un assurdo idiota» come ha commentato un ministro siriano alla cerimonia.
Il parco sta a pochi chilometri da Yarmouk, che da campo per accogliere i rifugiati palestinesi è diventato un campo di concentramento come quelli costruiti da Kim e dai suoi discendenti. Le truppe di Assad usano la fame per piegare gli abitanti che ancora resistono all’assedio, l’acqua e l’elettricità sono state tagliate, malattie scomparse (il tifo e la poliomelite) sono tornate a colpire i bambini e gli anziani, i terroristi dello Stato Islamico si sono asserragliati nei palazzoni grigi per premere sulla capitale.
Il clan che ha dominato la Siria per quasi cinquant’anni controlla ormai solo Damasco e le regioni che da qui scendono verso le montagne al confine con il Libano e verso il mare, 30 mila chilometri quadrati, un sesto di tutto il Paese. Il dittatore e i suoi consiglieri stranieri — i russi, gli iraniani, i libanesi di Hezbollah — contano di poter difendere queste zone-roccaforte dalle incursioni dei ribelli e dei miliziani che rispondono agli ordini del Califfo. È la strategia realistica che Assad ha ammesso di aver adottato in un discorso alla nazione: «Non siamo in grado di tenere tutte le posizioni, consolidiamo quelle che sono più importanti». Sa di aver perso anche il sostegno dei drusi: per la prima volta hanno attaccato le sue forze in una provincia del sud dopo l’uccisione di un leader religioso che si era ribellato agli ordini del governo.
Così i russi hanno scelto Latakia, il porto sul Mediterraneo abitato dalla minoranza alauita al potere, come base per preparare quello che sembra il dispiegamento dei suoi soldati. Il regime ne ha bisogno: le famiglie nascondono i giovani chiamati alla leva obbligatoria, i disertori sono in aumento, le truppe irregolari sciite di Hezbollah sono sfiancate da tre anni di battaglie nella guerra che va avanti da quattro e mezzo. Le proteste di John Kerry, il segretario di Stato americano, non preoccupano Vladimir Putin. È consapevole che i bombardamenti americani contro lo Stato Islamico — adesso anche i francesi e i britannici sono pronti a partecipare ai raid — alla fine rafforzano la posizione di Assad. Il presidente russo e gli iraniani non hanno mai smesso di sostenerlo e di ripetere che la cacciata del chirurgo oculistico diventato presidente non era in discussione. Fin dal 2012 quando a Ginevra le potenze internazionali cercano di trovare una soluzione al conflitto: gli europei e gli americani vogliono estromettere il dittatore dal processo di transizione, per superare l’opposizione di Mosca e Teheran propongono di inserire nel comunicato finale la formula «è escluso chiunque abbia le mani sporche di sangue». La risposta del diplomatico russo è rivelatrice: «Ma così è chiaro che parliamo di Assad».
Il sangue è quello dei primi manifestanti che nel marzo del 2011 scendono in strada a Deraa, nel sud della Siria, per chiedere il rilascio dei loro ragazzi, arrestati e torturati per aver scritto slogan contro il regime sul muro della scuola. Il sangue è quello dei civili massacrati dalle «botti bomba» sganciate sui quartieri dagli elicotteri, così imprecise che gli ufficiali tengono i soldati molto lontano e le famiglie si sono ormai convinte che la prima linea sia più sicura di casa loro. Il sangue è quello dei 65 mila scomparsi nelle celle dei servizi segreti — secondo l’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor — da quando la rivolta è cominciata.
Un rapporto pubblicato dall’Onu pochi giorni fa prova a documentare quello che è successo dentro la Siria in questi ultimi mesi, da gennaio a luglio. «I civili restano presi in mezzo — scrive la commissione d’inchiesta guidata dal brasiliano Paulo Pinheiro — tra i bombardamenti del regime e l’offensiva dello Stato Islamico, colpevole di crimini contro l’umanità: torture, violenza sessuale, traffico di schiavi». La responsabilità è anche delle potenze che competono per l’influenza nella regione: «Il conflitto è alimentato da forze internazionali che vogliono sostenere i loro interessi geopolitici. Questa competizione ha esacerbato lo scontro etnico e religioso istigato da predicatori e combattenti stranieri».
I siriani hanno dovuto lasciare le loro case per rifugiarsi nei Paesi confinanti o diventare esuli nella loro stessa patria prima che lo Stato Islamico sparigliasse la sfida tra i ribelli sunniti e il clan alauita degli Assad, prima che spadroneggiasse nella provincia di Raqqa e ne facesse il suo dominio in Siria nel maggio del 2014, prima che massacrasse i curdi a Kobane.
Oggi i profughi sono 12 milioni, di cui 4 sono riusciti a scappare dall’altra parte del confine, in 250 mila così disperati da cercare la salvezza nell’Iraq dove la guerra non è mai finita e dove lo Stato Islamico avanza. Metà della popolazione ha bisogno di assistenza, quattro siriani su cinque sono finiti in miseria, 3 milioni di bambini non vanno più a scuola, il 57 per cento degli ospedali pubblici è stato danneggiato e il 37 per cento non funziona più: la maggior parte è stata attaccata — per punire i villaggi o i quartieri ribelli — dallo stesso governo che li aveva costruiti. Un siriano deve aspettarsi di vivere in media, calcola l’Organizzazione mondiale della sanità, fino a 55 anni, venti in meno di prima della guerra, e anche così vorrebbe dire che gli è andata meglio dei 300 mila già morti nel conflitto, quelli che a un certo punto le Nazioni Unite hanno smesso di contare.