Marco Malvaldi, Corriere della Sera - La Lettura 6/9/2015, 6 settembre 2015
LA MORALE DEL BILIARDINO: LA VITA È UNA PALLINA (E ATTENTI AL ROSSO E AL BLU)
Ci sono fondamentalmente tre modi di parlare di un libro, o di un fumetto, che si è appena letto. Il primo modo è quello di parlare in termini entusiastici oppure in termini denigratori descrivendone il contenuto, e numerandone le numerose trovate geniali o raccapriccianti. Il secondo modo è quello di parlare di tutti i riferimenti storici, culturali, scientifici, medici o attinenti allo sciamanesimo che quel libro ha suscitato in noi, persone dalla cultura talmente profonda e vasta che qualsiasi libro, per noi, non è nient’altro che un ripasso. Qui il gioco sarebbe facile: dalla Guerra civile spagnola a Zapatero, passando per Tina Modotti e Rossana Rossanda, ci sono praticamente tutti gli argomenti e i miti della sinistra autoreferenziale di una volta, i quali vengono trattati da Spataro con un misto di rispetto e di ironia. Rispetto per chi, a opinione dell’autore, se lo merita, e ironia per chi, invece, si merita quest’ultima. Il terzo modo, invece, è quello di parlare di tutte le cose che un dato libro (o fumetto, sia beninteso) ti ha fatto venire in mente leggendolo.
Credo che questo sia il modo più onesto che posso adottare per parlare, o meglio scrivere, della graphic novel di Alessio Spataro, Biliardino (Bao Publishing). In teoria, il fumetto dovrebbe parlare della vita di Alessandro Finisterre, nome fittizio di Alejandre Campos Ramirez, ovvero l’uomo che inventò il biliardino. Ma, come in ogni epica che si rispetti, la vita privata di quest’uomo si intreccia con le vicende della storia con la S maiuscola. Mi sembra giusto, quindi, parlarvi delle storie di questo libro raccontandovi di come, in certi punti, si siano intrecciate con le mie.
Durante i primi anni del liceo, stavo con una ragazza che adorava Jean-Paul Sartre e mi sventolava continuamente in faccia il meraviglioso rapporto intellettualoide che quest’uomo aveva con Simone de Beauvoir: conseguentemente, pur non avendone all’epoca letto nulla, a me Jean-Paul Sartre rimaneva pesantemente sui coglioni. Poi sono successe tante cose: la ragazza mi ha lasciato e io ho provato a leggere Sartre, capendo che bisognerebbe fidarsi delle prime impressioni più spesso di quanto non facciamo.
Spataro si è quindi cattivato la mia simpatia in maniera quasi sleale con la sua meravigliosa presa per i fondelli del filosofo francese, dandogli quell’aria da batrace presuntuoso che io, nella mia testa, gli avevo sempre rifilato; nel fumetto, infatti, il Sartre di carta riesce a farsi prendere in giro da un letterato di ben altra levatura, Albert Camus, che interrompe uno dei suoi pretenziosi discorsi pieni di etica e di saliva facendogli notare in maniera garbata che fare domande a cui è impossibile dare risposte non è il miglior modo per aumentare la conoscenza umana. Non è un caso, secondo me, che sia proprio Camus a entrare nelle caviglie di Sartre con calcistica irruenza: l’autore de Lo straniero era infatti un patito di calcio, e secondo più di un testimone se attaccava a raccontare delle sue doti di cannoniere, la serata rischiava di tramutarsi in un monologo. Perché, secondo me, questo è uno dei due temi portanti di questo fumetto: l’importanza dello sport, e del gioco in generale, come potentissima fonte di analogie per la vita nel suo complesso. Dice lo stesso Alejandro Finisterre, poco prima di una partita a biliardino con Che Guevara, che il futbolìn
fa capire più cose della poesia sulla vita, e che questo lo capisce anche un bambino.
La prima cosa che uno capisce è che con il biliardino non si può seguire l’evoluzione temporale del gioco in maniera completa: mentre la palla è libera di scorrazzare per tutto il piano, e anche di sollevarsi da esso (se uno dei giocatori è particolarmente scarso), gli omini sono incernierati a delle aste e devono stare lì, in grado solo di muoversi in orizzontale, come se giocassero nel centrocampo del Milan di questa stagione. Così come le nostre possibilità di muovere gli omini sono molto minori di quelle che ha la palla, allo stesso modo le nostre capacità di organizzazione sono molto minori di quello che la vita è in grado di riservarci.
La seconda cosa che è meglio imparare alla svelta è che l’analogia è limitante: il biliardino, che sembra una partita di calcio, non è una partita di calcio. Decisamente improbabile fare gol con un cross seguito da un colpo di testa, mentre non è così raro che a fare gol sia il portiere, specialmente se in attacco avete messo a giocare il più scarso. Cosa che, contrariamente al calcio vero, nel biliardino è una mossa tattica scontata, più che consigliabile. Noi, nella vita, siamo abituati a farci guidare dalle analogie, esaltando le consonanze e trascurando i punti di disaccordo tra due fenomeni: un idealista, diceva qualcuno, è uno convinto che siccome una rosa profuma meglio di un cavolo, sicuramente darà un brodo migliore.
La terza cosa che uno, se è curioso, realizza è che le regole ufficiali non sono sempre uguali a quelle che vengono tramandate dalla tradizione orale, e che tali regole possono essere diverse da Paese a Paese. Da quando gioco, ho sempre saputo che il cosiddetto «gancio», ovvero il passaggio tra giocatori di una stessa stecca, è vietatissimo; questa cosa a livello ufficiale non è esatta. Primo, si può fare il gancio se la palla, prima di tirare, viene fatta battere sulla sponda; secondo, questa regola anche sui regolamenti federali ce l’abbiamo solo in Italia. Nel nostro Paese alcune regole e la loro applicazione sono diverse da quelle del resto del mondo: prima uno lo impara, nel biliardino come nella vita, e meglio è.
Certo, Malvaldi, potrebbe obiettare qualcuno, hai parlato di un libro dicendo in realtà cosa ti ha fatto venire in mente, ma del libro in se stesso hai detto pochissimo. Vero, e falso allo stesso tempo. Vero, e meritevole: perché i libri sono lì per essere letti, non per leggerne le recensioni e gli articoli che ne parlano. Falso, perché in realtà ho usato lo stesso efficacissimo pretesto che ha usato Spataro. Ogni episodio storico, nella trama del libro, è visualizzato come una peculiare mossa del biliardino: e il biliardino stesso cambia, nel corso del tempo, per adeguarsi.
Cercare di vedere il mondo in due colori, il rosso e il blu, come se fosse un biliardino, è stata per anni una potentissima e devastante analogia che ha messo paraocchi e paraorecchi a molti di noi. Ma il mondo non è esattamente un biliardino: è parecchio più simile a una palla che rotola, imprevedibile. E noi, gli attori che cerchiamo di prenderla a calci, a volte siamo in grado di farla finire nella nostra stessa porta, se prendiamo male le misure. Giocare è uno dei modi migliori per capire le regole del mondo che ci è toccato in sorte. E una di queste regole, come questo libro suggerisce continuamente, è che le regole di un gioco le inventiamo noi. Siamo noi, con il nostro cervello e le nostre mani, a poter inventare un nuovo gioco, se quello a cui stiamo giocando non ci soddisfa. E siamo sempre noi a poterci rendere conto che quel gioco è, per l’appunto, un gioco. Il mondo, quello vero, è fuori. Simile, ma non uguale. Buon divertimento.