Vincenzo Trione, Corriere della Sera - La Lettura 6/9/2015, 6 settembre 2015
L’AEROPORTO DELLA STORIA
Denso di suggestioni leonardesche, il Triplice ritratto di orefice di Lorenzo Lotto mostra un uomo in tre pose differenti. Un individuo non «a una dimensione» (per dirla con Marcuse), ma a tre dimensioni. Un personaggio che, per servirci delle parole di Savinio, sembra avere «almeno tre idee per volta».
Carlo Ginzburg gli somiglia un po’. Anch’egli ha un’identità plurale. Storico rigoroso, nel corso degli anni si è misurato con saperi diversi — come rivelano i suoi libri di argomento storico-artistico ( Indagine su Piero ) e quelli su tematiche letterarie ( Nessuna isola è un’isola ) — sempre attento a salvaguardare una precisa metodologia critica, fondata sulla necessità di saldare due movimenti dello sguardo: adesione e distanziamento. Per un verso, egli tende a soffermarsi su alcuni «oggetti» particolari. Per un altro verso, mira a svelarne il pensiero segreto. Per comprendere le ragioni e i simboli di una specifica «cosa», se ne allontana. Nelle sue avventurose ricerche sul campo, si consegna alla strategia della lateralità: si colloca in una posizione obliqua rispetto ai «fatti». All’apparenza, divaga: considera i suoi studi come «esperimenti». Si inoltra in sentieri inesplorati. Sorretto da un’indomita curiosità, segue piste poco battute. Talvolta, sembra smarrirsi. Agisce come un detective che rintraccia indizi: procede per ipotesi e illazioni. Poi, con sapienza, combina quelle tessere in un puzzle che riesce a farci osservare un documento, un quadro o un romanzo da un’angolazione diversa.
Tra i suoi modelli di riferimento, Aby Warburg. Il quale, distante da ogni puro visibilismo, sin dagli anni giovanili, ha voluto ampliare il raggio d’azione della storia dell’arte. Impegnato a riflettere non sugli aspetti stilistico-formali, ma su quelli «pragmatici» delle opere d’arte, teorico del Pathosformeln («formule di pathos»), Warburg investiga sulla sopravvivenza, sulla trasmissione e sulla trasformazione di alcune «immagini viaggianti» nel corso dei secoli. Privi del loro significato originario, questi motivi iconografici permangono come spettri. Che, riposti quasi in penombra, all’improvviso possono ridestarsi, modificarsi, caricarsi di un senso diverso, essere immessi dentro originali circuiti semantici. Questi affioramenti non sempre calcolati di emozioni lontane sono gestiti dalla memoria. Che acquisisce tracce dissonanti. Per rimodularle e rilanciarle.
Proprio a Warburg è dedicato l’ultimo libro di Ginzburg, Paura reverenza terrore , che inaugura una nuova collana Adelphi, Imago. Vi sono raccolti cinque saggi che analizzano immagini dotate di forte valenza politica. Sono immagini di diverso tipo, realizzate in varie epoche, accomunate dall’esprimere gesti di terrore. Come i tasselli di una dinamica topologia della modernità: una coppa di argento dorato, modellata da un artigiano di Anversa (1530 circa); la riproduzione sul frontespizio del Leviatano di Hobbes; il Marat di David; il manifesto con cui Lord Kitchener, alla vigilia della Prima guerra mondiale, richiamò la gioventù inglese alle armi; Guernica di Picasso.
Ginzburg fa emergere il sottotesto di questi episodi, disseppellendo un vasto giacimento di rimandi cui i loro autori hanno attinto più o meno consapevolmente: rinvii classici che, in maniera non sempre intenzionale, sono stati assunti e risemantizzati. Si pensi a Picasso che, dotato di una formidabile memoria visiva, in Guernica ferma un drammatico evento di cronaca, profanando assonanze eterogenee — echi letterari, artifici cubisti e reminiscenze rinascimentali e neoclassiche — fino a pervenire a uno stile eversivo e, al tempo stesso, museale.
Per compiere queste sorprendenti operazioni genealogiche, Ginzburg fa convivere diverse anime: quella dello storico tout court (che attribuisce un’assoluta centralità alla fase archivistica), quella dello storico dell’arte (intimamente attratto dalla pittura), quella dell’intellettuale impegnato, già autore di Il giudice e lo storico sul caso Sofri (animato da una profonda sensibilità civile), e quella del saggista (che si affida al filtro di una scrittura asciutta ma evocativa per dar voce a uno sfaccettato universo di figure).
Muoviamo da una pagina di Roberto Longhi. Che, in un articolo del 1950, ha scritto: «L’opera d’arte è (...) una lacerazione di tessuti propri ed alieni. Strappandosi, non sale in cielo, resta nel mondo». Questa idea sembra aver orientato anche la sua riflessione sull’arte.
«Per me ha un ruolo fondamentale la lezione di Longhi, che ha saputo valutare l’importanza dei contesti: sculture e quadri non nascono da soli e non agiscono da soli. Ma Longhi ha rivolto la sua attenzione soprattutto alle opere d’arte. La mia prospettiva è diversa. Nel mio libro ho lavorato su un insieme di oggetti più ampio, quello delle immagini: il Marat , ma anche manifesti, illustrazioni. Studio lo scenario in cui quelle immagini sono state prodotte e hanno preso forma. Inoltre, mi interrogo sulle rotture da esse provocate e sulla “lunga durata” in cui si inseriscono: a volte in modo inconsapevole».
Nelle «Tesi di filosofia della storia» Walter Benjamin invitava a «spazzolare la storia contropelo». È quello che lei si propone di fare?
«Per me quell’invito significa che bisogna interpretare le testimonianze scritte e visive anche in maniera preterintenzionale: andando contro le intenzioni di chi le ha prodotte. Naturalmente anche gli intenti di un artista rientrano nel mio campo di osservazione. Ma non bisogna mai dimenticare che, in un’opera, conta solo il risultato finale».
La sua scelta di aprirsi a territori come quelli dell’arte (e della letteratura) rivela la sua esigenza di superare i confini della storiografia accademica?
«Gli storici dovrebbero occuparsi di tipologie di documenti molto diversi: ogni documento può essere iscritto in una prospettiva storica. Per me la storia non è una fortezza, ma un porto o un aeroporto: un luogo da cui si parte verso altre destinazioni. Concepirla come una disciplina chiusa in se stessa sarebbe un’assurdità».
Come si spiegano i suoi interessi per la storia dell’arte?
«La pittura mi ha sempre appassionato. Mi affascina il lavoro degli storici dell’arte: i loro metodi, non solo i temi di cui si occupano».
«Paura reverenza terrore» è un libro non solo di quadri, ma di immagini. Come le ha scelte?
«Ho studiato immagini note ( Marat , Guernica ) e poco conosciute, come la coppa di Anversa (esposta a Monaco): un oggetto intravisto con la coda dell’occhio, che mi ha afferrato subito. Spesso guardando le immagini, si coglie qualcosa al primo sguardo, quasi oscuramente: ma per rendere esplicito il senso di quel qualcosa, bisogna lavorare per anni».
Per decodificare il mistero delle immagini, nel suo libro è ricorso al metodo warburghiano. Come si spiega l’interesse attuale di molti studiosi per l’opera del visionario autore di «Mnemosyne»?
«Ho cominciato a studiare Warburg circa cinquant’anni fa. Poi, il libro di Gombrich a lui dedicato ha generato una sorta di moda. Oggi si trascura il Warburg dei saggi fiorentini, mentre si preferisce il Warburg dell’ Atlante , di cui si offrono letture approssimative, distorcenti. Ma le domande che questo storico dell’arte si poneva non erano le nostre. Se partiamo da questo dato ovvio, scopriamo che egli ha ancora molto da dirci».
Per comprendere il suo metodo, è illuminante il saggio su «Guernica», dal quale viene fuori il ritratto di un artista portentoso nell’assimilare con disinvoltura tante fonti culturali.
«In quel testo distinguo tra conclusioni che considero certe e congetture. In particolare, ricostruisco la traiettoria in cui Guernica s’inscrive, basata su composizioni a fregio (che invitano alla lettura da destra a sinistra). Picasso aveva una memoria prodigiosa, che gli permetteva di accogliere e di rielaborare spunti eterogenei. Ma per tutta la vita ha lottato con un ostacolo, di cui era conscio: sapeva disegnare troppo bene. Egli è l’opposto di Cézanne, i cui primi quadri risultano quasi goffi, maldestri. È a partire da questo limite che ha raggiunto un linguaggio grandioso».
Nella loro continuità, i saggi del libro definiscono i lineamenti di un’iconografia politica.
«Questo libro è emerso lentamente, senza premeditazione. È come se alcune immagini avessero scelto me: non sono stato io a sceglierle. In seguito, mi sono reso conto che un filo legava quelle icone e il modo in cui le avevo interpretate: sono icone nate in un contesto politico, che hanno generato rilevanti conseguenze politiche».
In un libro precedente, «Rapporti di forza», ha sottolineato che, per uno storico, le fonti non sono finestre spalancate, né muri che ostruiscono lo sguardo ma vetri deformanti. Mi sembra che questa convinzione l’abbia guidata anche nelle analisi iconografiche proposte in «Paura reverenza terrore».
«Gli storici devono saper usare anche l’immaginazione, perché i documenti non parlano da soli: sono come vetri smerigliati. Qualcuno obietterà che considerare le opere d’arte come documenti porti a impoverirle. Non è così. Le caratteristiche formali del Marat di David non sono estranee all’effetto che questo quadro provocò e continua a provocare in chi lo guarda».
In «Paura reverenza terrore» si concentra soprattutto sul piano contenutistico delle immagini, di cui ricostruisce la genealogia, mentre tende a non soffermarsi sugli aspetti propriamente stilistici. Non ritiene che, come amava ripetere il pittore «nabis» Maurice Denis, «un quadro, prima di essere un cavallo da battaglia, una donna nuda o un aneddoto qualunque, è una superficie piana ricoperta di colori accostati secondo un certo ordine»?
«Nessuna lettura di un’opera d’arte è esaustiva. Certo, un’interpretazione che si concentri solo sugli elementi formali, come quella dei purovisibilisti, è possibile. Ma ogni elemento formale rinvia a un contesto; e anche le nostre categorie descrittive sono cariche di storia. È per questo che sento molto vicino il Longhi maturo, ossessionato dalla cronologia e della geografia: i due occhi della storia».