Gabriele Romagnoli, la Repubblica 6/9/2015, 6 settembre 2015
L’11 SETTEMBRE DI SANTIAGO TRA DITTATURA E ULTIME POESIE
C’è stato un altro 11 settembre, ancora più tragico, ma l’abbiamo oscurato nell’impossibile confronto. Ricordi Santiago? Era il 1973, uccisero il presidente eletto, Salvador Allende, deportarono migliaia di persone in uno stadio, le torturarono, le fecero sparire. Morì anche il poeta, Pablo Neruda, in una clinica di veleni e sospetti. Il suo funerale, celebrato il 23 settembre, fu il primo momento di reazione popolare. Per noi italiani che eravamo ragazzi a quel tempo Santiago era una città da riconquistare, e a pochi bastò che lo facessero quattro tennisti e un capitano non giocatore, nonostante la maglietta rossa con cui Panatta e Bertolucci affrontarono e vinsero il doppio di coppa Davis. Dovevamo, tutti, un collettivo, una generazione, riprenderci Santiago. Un mio amico del liceo sognava di avere un figlio e chiamarlo Santiago, poi l’ha fatto Belén e sono partito per il Cile.
Non sapevo che cosa cercare, men che meno che cosa avrei trovato. Erano tutti così accomodanti verso la storia, verso gli assassini, sembravano voler soltanto procedere oltre prima di aver chiuso i conti, senza nemmeno categorie cristiane a motivare la scelta. C’era una strada centrale dedicata all’11 settembre e non capivo a che titolo. Gli uomini passavano le giornate nei café con piernas, in cui i banconi lasciavano vedere le gambe delle bariste rigorosamente in minigonna. Come altrove, magnati televisivi prendevano il potere.
Sono finito a girare intorno alla clinica Santa Maria dove morì Neruda. Il suo autista, Manuel, cercò di convincermi che lì era stato ammazzato, come il presidente democristiano Eduardo Frey quando divenne scomodo per i generali. Non c’era bisogno di dimostrazioni, né di esumare il cadavere per una tardiva autopsia: se tu strappi un uomo anziano e malato alla sua casa sul mare, lo trascini a Santiago in ambulanza, lo fai scendere più volte in barella lungo la strada, lo minacci, gli bruci i libri, lo hai ammazzato comunque. Cercavo qualcosa, un senso nascosto: l’ultimo messaggio di Neruda. Ma quale? Per noi, di nuovo, Neruda è quel signore che dà consigli a un postino con la faccia di Troisi su un’isola piena di luce. Che cosa voleva ancora dirci, fuori dalla finzione cinematografica?
In una notte senza luna, in un bar colorato ho letto una sua poesia, io che le poesie non amo, avendo passato la vita in prosa, a mettere insieme traiettorie che mi diventavano linee spezzate sulle pagine e altrove. «Ma l’uomo sai, era questo – ricordava Manuel – beveva whiskey e poi mi diceva: fermati davanti al mare e buttava giù parole sul taccuino, come gli venivano». E così ho letto «Ode alla tempesta» che «blu come la notte e rossa come il vino, capelli d’acqua e occhi di fuoco, voleva dormire sulla terra, dove era arrivata all’improvviso, scatenata, dal suo pianeta furibondo, dalla sua grotta nel cielo».
Parole sul taccuino: questa come gli è venuta, Manuel? Stando seduto nella sua casa sull’oceano, a Isla Negra, costruita come una barca, nel suo studio di vetro, guardando l’orizzonte svanire, onde e nuvole lottare, il suo mondo finire.
L’ultimo giorno di vita delirava sotto le lenzuola fradice di sudore, nei letti di ferro di questa clinica orribile. Disse alla terza moglie Matilde: «Li stanno fucilando tutti!», e poi «Asciugami gli occhi». Disse all’autista di tornare a Isla Negra e portargli le sue medicine, qualche libro e una cosa. Che cosa, Manuel? Non risponde, mi fa cenno di seguirlo sull’auto, verso la casa di Isla Negra dove Pablo e Matilde sono sepolti davanti al mare. Santiago è nel retrovisore, non ce la siamo mai ripresa. Il mio amico Renzo ha fatto un bellissimo spettacolo sul funerale di Neruda insieme con Luis Sepúlveda, ogni volta è un brivido quando una piccola folla rompe il silenzio imposto dal terrore e grida «Camarada Pablo Neruda! Presente! Ahora... y siempre! ». Ma queste sono cose difficili da credere: bisogna credere in dio per credere nell’uomo. Se non c’è creazione non c’è continuazione. Nessuno rimane, ma raccogliamo l’assenza e facciamo quel che possiamo in nome e per conto.
Arrivati: la casa, l’oceano, lo studio, le vetrate. Manuel indica un oggetto posato davanti alla finestra.
«E quando pensavamo che il mondo stesse per finire, tutto quel che accadde fu la pioggia, pioggia, e ancora pioggia, nient’altro che pioggia, di tempo e di cielo e non distrusse che un ramo spezzato, un nido vuoto».
La tempesta clemente all’orizzonte, una nave in bottiglia davanti al vetro: ecco cosa Neruda voleva da casa, più ancora delle medicine e dei libri. Una nave in bottiglia, quella che nessuna tempesta può affondare, ma che non può mai approdare, protetta e maledetta dal vetro. Non sarebbe mai andato in esilio, come sognava, non sarebbe mai morto, sempre presente, per lui che credeva nell’uomo e quindi in una qualche forma di dio, in qualche maniera di celebrarli entrambi. Undici settembre. E così sia.
Erano tutti così accomodanti verso la storia,verso gli assassini Sembravano voler solo procedere oltre prima di aver chiuso i conti senza nemmeno categorie cristiane a motivare la scelta.