Federico Fubini, Corriere della Sera 6/9/2015, 6 settembre 2015
I GRANDI ALLO SCARICABARILE COM’È DIFFICILE LA CRESCITA CON UN SOLO MOTORE, QUELLO DEGLI STATI UNITI
ANKARA A un certo punto Stanley Fischer deve aver capito che il solo modo per uscirne era una battuta. «Mi fate tutti la stessa domanda: quando alzeremo i tassi d’interesse. Vi darò la mia risposta sincera», ha detto con un sorriso tagliente il vicepresidente della Federal Reserve in una sala dello «Sheraton» di Ankara. Decine di occhi di banchieri centrali, ministri finanziari, sherpa e dignitari del G20, il club delle venti grandi economie del mondo, si sono appuntati su di lui. «La risposta è: non lo so».
A 71 anni Stan Fischer, numero due di Janet Yellen alla Federal Reserve, sta iniziando a parlare sempre di più come un numero uno-bis. Per la seconda volta Yellen ha rinunciato ad andare al G20, a differenza del suo predecessore Ben Bernanke che non mancava mai. L’attuale presidente della Fed a volte appare perfino non del tutto a suo agio nel rivolgersi a una platea, specie all’estero. Dunque Fischer, un economista nato nell’attuale Zambia, cresciuto in Zimbabwe, a suo tempo professore di tesi di dottorato di Bernanke e di Mario Draghi al Massachusetts Institute of Technology, poi governatore della Banca d’Israele, ieri occupava la sedia più scomoda nel G20: quella della banca centrale più potente, e probabilmente la prima dopo la grande crisi ad alzare i tassi d’interesse. Tra non molto. Secondo alcuni, malgrado i recenti crolli di Borsa, forse già il 17 settembre. Anche per questo Fischer, a porte chiuse, ha cercato di alleggerire il pathos. «Anche se alzassimo i tassi, li porteremmo dallo 0,25% allo 0,50% — ha detto —. È lo stesso livello della Bank of England: qualcuno ha il coraggio di dire che sarebbe restrittivo?».
Due giorni fa l’ultimo dato sull’occupazione negli Stati Uniti è uscito più debole del previsto, ma Fischer non è parso intimorito. Senza dirlo ha dato l’impressione che la Fed oggi propenda per alzare i tassi non questo mese, ma in dicembre. Soprattutto il vicepresidente della Fed ha avvertito: «Lo chiamano lift off, decollo, ma si sbagliano: non ci saranno salti, l’aumento dei tassi della Fed sarà molto graduale». Tante rassicurazioni si spiegano con un equilibrio fragilissimo, al G20 di Ankara. Nell’ultimo trimestre gli Stati Uniti hanno registrato un tasso di crescita del 3,7% in ritmo annuale, ma ormai sembrano quasi l’unico motore su cui viaggia l’intera economia globale. Con l’eccezione della Gran Bretagna, gli altri Paesi avanzati restano indietro: in Canada negli ultimi tre mesi l’economia è scivolata giù a causa del crollo dei prezzi del petrolio; in Giappone è arretrata per le crepe che si stanno aprendo nell’Asia emergente; l’area euro è andata avanti a ritmo lento (+1,3% annuale), ma solo grazie all’export che assorbe la voglia di spendere dal resto del mondo e non grazie agli investimenti dovrebbero preparare il futuro. Il Brasile è in profonda recessione. Quanto alla Cina è un tale enigma che la folla di dignitari del G20 ha affrontato il viaggio fino in Turchia quasi per sentire il suo governatore Zhou Xiaochuan e il ministro delle Finanze Lou Jiwei.
I due avevano molto di cui parlare. Da marzo l’indice dei costi del trasporto merci via mare, il Baltic Dry Index, è giù di più del 50%: un crollo che riflette la frenata del commercio globale e probabilmente ha origine nei problemi della Cina. Ieri al G20 la preoccupazione era evidente soprattutto fra delegati della potenza che più di ogni altra dipende dall’export: la Germania. Ma i cinesi non si sono limitati a difendersi. Hanno preferito partecipare anche loro al grande scaricabarile che torna ogni volta che le cose vanno peggio del previsto: secondo i loro negoziatori la caduta dei prezzi del petrolio per esempio non si spiega con le difficoltà della Cina, «perché è iniziata prima». Gli sherpa di Pechino hanno puntato il dito sull’eredità della grande crisi euro-americana e sulle enormi iniezioni di liquidità delle banche centrali di Europa, Stati Uniti e Giappone, accusate di destabilizzare i mercati finanziari emergenti.
Il ministro delle Finanze Lou, il solo a parlare nella propria lingua, ha però anche cercato di rassicurare: la Cina quest’anno crescerà comunque «attorno al 7%», ha detto, e per questo il governo sta già preparando «progetti» (leggi: nuove grandi opere). Intanto però gli americani al G20 hanno già protestato per le svalutazioni di molti Paesi emergenti e forse anche dell’euro, perché sottrarrebbero quote di mercato agli Stati Uniti. Nessuno al tavolo G20 ha osato eccepire sulla credibilità dei dati presentati da Pechino. E né il ministro Lou, né il governatore Zhou hanno osato parlare del debito cinese, crescente e di entità ignota. Non solo i due non hanno fornito cifre: non hanno neanche pronunciato la parola. Prima o poi, se vogliono che la Cina diventi davvero una potenza «normale», dovranno farlo.