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 2015  settembre 06 Domenica calendario

RITA PAVONE, UN MASCHIACCIO VESTITO DI SETA CHE PIACEVA A TOGLIATTI

Rita Pavone, settant’anni appena compiuti, esce con il libro Tutti pazzi per Rita (Rizzoli), dove racconta la carriera, gli incontri importanti — da Don Lurio a Elvis Presley —, l’amore con Ferruccio Ricordi in arte Teddy Reno, gli scandali, le vittorie, l’addio alle scene e il recente ritorno. «A forza di riflettere mi sono accorta di una cosa: ho ancora in testa mille progetti, canzoni, desideri (...). Potrei tornare nel mio amato Brasile per salutare i dolcissimi fan che mi aspettano là, oppure, perché no?, esibirmi per la prima volta in un concerto a Londra». Nel libro insomma Rita Pavone racconta come si diventa Rita Pavone, prima star internazionale — in un’epoca di maggiorate e bellissime — a non imporsi per doti femminili, tanto da essere definita maschiaccio. «A Teddy dicevano: che fai, ti sposi un maschio?»
Lei non si arrabbiava?
«Non me ne importava niente. Ero bassa, piallata, sapevo che dovevo emergere per altre qualità. Ovvero? La voce. Arrivavo ai provini e dicevano: “Ma che è questa la cantante?”, oppure se cantavo direttamente: “Da dove esce questa voce?” La mia rivincita era la voce».
Come si sentiva dopo?
«Altissima. Ero l’emblema di tante piccole donne, il mondo è fatto di piccole donne, il pensiero era: se è arrivata lei, allora posso anch’io».

Lei però ha fatto di più, ha volutamente giocato sull’ambiguità. Quando ha capito che poteva funzionare?
«Mai, è stato tutto un caso. Dopo aver vinto il Festival degli sconosciuti di Ariccia, mio padre mi porta al cinema a vedere Sabrina . Dico: bel taglio. E così mi faccio anch’io i capelli corti. Per imitare Audrey Hepburn».
Tutto qui?
«I capelli corti non stavano bene con gonne e sottogonne, da lì camicie, calzoni e bretelle. Io sul palco mi devo muovere. Salto, corro, la gonna è impossibile. Non sono una cantante da microfono».
Consapevole di aver fatto una scelta forte?
«Sapevo di aver creato un look da sola, senza stilisti, e andò bene: le ragazzine si vestivano come me».
Chi è allora Rita Pavone?
«Un tomboy , maschiaccio vestito di seta».
Nel 1964 arriva «Gian Burrasca», ovvero la possibilità di interpretare davvero un maschio: come ci riesce?
«Non dovevo sembrare un travestito, volevo essere davvero un maschio. Ho studiato i tre miei fratelli, i loro movimenti: piede appoggiato al muro, gambe larghe, sempre a stropicciarsi il naso. Anche oggi, quando riguardo lo sceneggiato, nelle ambientazioni con gli altri maschi, penso: sono uno di loro».
La regista Lina Wertmüller non le ha mai chiesto di ripetere una scena perché magari non era credibile come maschio?
«Solo una volta. Edoardo Nevola, nella finzione Tito Barozzi, l’amichetto di Gian Burrasca, si era preso una cotta per me. Al momento dell’addio si vedeva, ci guardavamo da maschio e femmina. Arriva Lina e fa: “Ragazzi, questo va in prima serata, non facciamo cose ambigue”. Abbiamo riparato finendo la scena col pugno. Ci salutiamo col pugno. Eravamo di nuovo due maschi».
Con «Gian Burrasca» si rafforza l’idea di Rita Pavone maschiaccio?
«Mi scambiavano per maschio, s’innamoravano. Le bambine mi scrivevano lettere d’amore. Per strada mi fermavano: Gianburrasca! Poi i genitori rivelavano che ero Rita Pavone, una femmina. E loro ci rimanevano malissimo: “Come una femmina?”».
Cos’è per lei la femminilità?
«Una cosa interiore. Un modo di vivere un sentimento, o di guardare un uomo. Mio marito Teddy Reno a tutti quelli che gli dicevano “sposi un maschiaccio” rispondeva: “Voi non la conoscete, io ho scoperto la sua femminilità”. Anche altri hanno visto la mia femminilità. Umberto Eco scrisse: “Questa ragazza che camminava verso il pubblico, con l’aria di domandare un gelato, e le uscivano di bocca parole di passione”. Un altro era Dino Buzzati. Me lo disse Alfredo Pigna: “Lo sai che Buzzati era un tuo grande ammiratore?”. E io: “Ah, quale canzone?”. E lui: “No no, gli piacevi fisicamente”».
Anche Togliatti era suo ammiratore, giusto?
«Una volta, dopo un concerto organizzato da “l’Unità”, lui viene a salutarmi: “Lei mi piace tanto, è la giovinezza fatta persona”».

Per quanto è stata adolescente nell’immaginario popolare?
«Fino a cinquant’anni sicuro. In realtà anche adesso, l’altro giorno sul sito mi ha scritto una fan: “Abbiamo la stessa età ma io mi sento tua nonna”».
Grande responsabilità rappresentare la giovinezza anche dopo la giovinezza?
«Conta quanto uno è solare, io lo sono sempre stata. Questa è la giovinezza».
Nella vita reale, invece, quando è finita l’adolescenza?
«Prestissimo. Intorno ai sedici anni, con il lavoro. Ma non mi lamento, ho avuto una vita bellissima, ho visto il mondo, sono stata fortunata. Anche quando mi ha toccato la disperazione, subito dopo arrivava qualcosa di bello».
I momenti di disperazione?
«Il dolore più grande, più grande della morte dei miei genitori, è stata la morte di mia nonna Filomena. Io mi chiamo Rita Ori Filomena».
Perché Ori?
«La mia madrina aveva viaggiato molto. Aveva sentito questo nome non so dove, le piaceva il suono, mai saputo che significasse. Io l’ho abolito, sapevo che mi avrebbero detto: che ori sono?».
Filomena invece lo ha tenuto?
«Filomena eravamo io e la nonna insieme. Passavo giornate intere con lei perché i miei genitori lavoravano. Lei prometteva di portarmi al cinema Faro. Non mi portava mai. Un giorno decidiamo di andare, davano la Bohème . Lei legge Bocheme ad alta voce, aggiunge una c , e decide: “No no, questo non è per bambini”. Non siamo andate neanche quella volta. Carattere tosto».
Come il suo?
«Le faccio un esempio: fuori dalla scuola elementare, all’angolo della strada, c’era sempre un tizio in impermeabile che ci seguiva e poi apriva l’impermeabile. Nessuno aveva il coraggio di dirlo ai genitori. Io lo dico a nonna: “Nonna, c’è uno che si apre l’impermeabile e sotto è nudo”. Il giorno dopo arriva lei. Nella strada si sente solo un urlo. Lo aveva preso a bastonate col suo bastone dall’impugnatura di testa di cane d’argento: era una donna elegante mia nonna, bastone e guantini bianchi di pizzo, sedie di paglia di Vienna».
E l’uomo?
«Sparito. Mai più tornato».
Che cosa ha tenuto della nonna?
«La effe di Filomena il giorno che hanno smantellato la tomba. Mi sono portata via la effe».
Dei suoi genitori invece?
«Poco».
Com’è stato il rapporto con suo padre?
«Lui è stato il mio vero e primo fan. Lo adoravo. Poi mi ha deluso. Appena ho avuto successo si è licenziato dalla Fiat: “Il padre di Rita Pavone non può stare al tornio” diceva».
E lei?
«Un po’ lo capivo: era un uomo che non aveva avuto niente, quando ha cominciato ad avere qualcosa, voleva di più».

Il momento in cui ha smesso di capirlo?
«Mi ha fatto molto soffrire perché mi ha usato. Ha usato me e la mia storia con Ferruccio. Ha detto a mia madre che se ne andava di casa perché io sposavo un uomo già sposato, e lui non voleva avere niente a che fare con noi. Per anni mia madre lo ha rimpianto: “Ho perduto la mia famiglia per stare dietro a te”. Poi abbiamo scoperto che aveva un’altra. Io veramente lo sapevo dall’inizio, mamma no».
L’ha perdonato?
«Sì. Non sono riuscita a dirglielo però. Sono arrivata che era già morto, il mio è stato un soliloquio».
Teddy Reno per lei è stato una figura paterna?
«Macché, mio padre somigliava a Clark Gable».
Diciannove anni di differenza che cosa rappresentano?
«Un numero. Come la nostra età. Teddy oggi ne ha ottantanove, ma se lo vede...».
E i suoi settant’anni?
«Se non passo davanti a uno specchio, me ne sento diciotto».
Un bene?
«Qualcosa dentro di me non ha capito che ho settant’anni. Me ne accorgo solo guardando i miei figli: uno di quarantacinque anni, l’altro di quarantuno. Allora penso che anch’io devo averne più di diciotto per forza».
Rimpianti?
«Nessuno».
Nemmeno la Jaguar rosa che le regalò Teddy Reno per i suoi ventun anni?
«L’aveva fatta fare apposta per me: l’altezza dei sedili, i pedali più lunghi, sennò non ci arrivavo. Era la megalomania: la macchina doveva essere più grande di me. La Jaguar fece i modellini rosa che vendeva, si chiamava Jaguar Rita Pavone. Non ne esistevano altre».
E non la rivorrebbe?
«Ma c’è ancora. Per vent’anni è stata rossa, Teddy la fece dipingere tutta di rosso perché ci riconoscevano ovunque. Mercoledì vengono a prenderla per rifarla rosa».