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 2015  settembre 06 Domenica calendario

UNO, NESSUNO, 39 AMLETI

Su un taccuino nero, intonso, prendo qualche appunto. Sto per assistere a una replica dell’Amleto più corteggiato (dal pubblico) del teatro britannico, quello che al Barbican ha per protagonista Benedict Cumberbatch. Fino all’altro ieri questo nome non mi diceva nulla, lo avevo visto ne La talpa, ma di lui non mi ero accorto. Pure, il mondo è così. Cumberbatch è tale divo da aver prodotto una quantità di record e quando il successo precede l’evento bisogna pregare che non vi siano né esagerazione né sciatteria poiché – come dice il Principe di Danimarca allorché con i suoi attori si fa regista preparando la recita che spera smascheri il nuovo re – se «l’esagerazione o la sciatteria muovono al riso il pubblico della domenica, non possono che spiacere all’intenditore, della cui censura dovete fare più conto che degli applausi di un teatro esaurito». Intenditori? Sono io un intenditore?
Gli appunti che vado prendendo, sul filo della memoria, riguardano gli Amleto di cui ho esperienza come spettatore di teatro, di cinema, di video. Cito i registi: Zeffirelli (due edizioni), Gassman, Olivier, Branagh (l’unica integrale), Bene, de Berardinis, Brook, Liberti, Chéreau, Macaigne, Grüber, Richardson, Lavia, Cecchi, Kaurismäki, Stoppard, Kozintsev, Vasilicò, Scaldati, Ianneo, Ostermeier, Latella, Castellucci, De Capitani, Di Marca, Marowitz, Ljubinov, De Summa, Nekrošius, Tiezzi, Pititto, D’Ambrosi, Wajda, Sepe, Archibugi, Sixty, Koršunovas. Memoria più un pizzico di archivio, sono 38, naturalmente potrebbero esserci degli errori, il film di Kaurismäki, Amleto si mette in affari , e la commedia di Stoppard, Rosencrantz e Guildenstern sono morti , in fondo hanno un rapporto con il testo di Shakespeare molto relativo. Ma considero, come fossi precipitato in pieno Hitchcock, un «trentanovesimo gradino» lo spettacolo di Lindsay Turner, la regista di Cumberbatch e poiché trentanove sono troppi, provo a sceglierne qualcuno non già in base ai punti di vista di cui sembrano disporre gli attuali intenditori — emozione, impressione, gusto, partito preso — ma, bello o brutto che lo ricordi, in base al senso o, se si vuole, al significato culturale che gli Amleto che nominerò mi sembra abbiano avuto.
1. Classicismo
In qualche modo vi rientrerebbe anche Branagh, ma la sua tardività (1996) imporrebbe almeno un neo- davanti a questa aborrita parola, classicismo . Ne resta l’esempio sommo Laurence Olivier (1948), per eleganza, controllo, equa distribuzione delle parti. Egli, come regista e come interprete (cito ancora Amleto di fronte ai suoi attori), mantiene «la regola di non soverchiare la modestia di natura»: il monologo vi diventa soliloquio; l’intimità con se stesso sottigliezza; solo sottigliezza, nessuna frattura, tra pensiero e azione.
2. Modernità
Nel 1964 mi colpì davvero quell’Albertazzi in blue jeans che si calava in una buca per recitare «essere o non essere» ma altro non ricordo. E se Roberto De Monticelli loda lo spettacolo di Zeffirelli, Sandro De Feo lo maltratta per la scelta di essere moderni creando un Amleto nevrotico: «È l’Amleto più nevrotico che abbia visto, senza l’ombra della grande malinconia del pellegrino che procede attraverso le lande infette del male» (Zeffirelli nel 1990 farà un Amleto più bello al cinema, un Amleto «americano» ma memorabile per la Gertrude di Glenn Close e per lo Spettro di Paul Scofield).
3. Tarda modernità
Come dimenticare lo Hamletmachine dello Heiner Müller di Virginio Liberti? Se il tedesco nel testo originario non accoglieva che gli «effetti di deriva», l’italiano (nel 2003) stringeva su tali effetti la vite, se ne faceva beffe: un Amleto lancinante, per la prorompente vitalità e per il dolore. Quasi quanto, nello stesso ordine, benché tutto diverso, l’Amleto (del 2011) di Vincent Macaigne. Esso scivolava poco a poco dal populismo iniziale al pop, al camp, al trash: mai s’era vista una tragedia meno tragica, ovvero piazzata nella zona di nessuno in cui non si può né essere né non essere, né scoronare né essere scoronati, né ascoltare (o vedere) né essere o non essere ascoltati (o visti).
4. Allegoria
Tutto è Amleto meno che allegorico. Eppure i luminosi primi piani su fondo nero di Tony Richardson (1969) o i lirici, verticali viluppi dei corpi di Giuliano Vasilicò (1971) in cui i personaggi e le azioni si agglutinano fino a non lasciare che aspre immagini (il grande teatro italiano di figura) tutto riconducono a pure essenze, dunque a un’idea laico-religiosa — quella che Cecil A. Bradley, che ne resta il maggiore interprete, riscontra capillarmente nel testo.
5. Narcisismo e patologia
Come non accostare in queste due grandi sfere dell’esperienza contemporanea artisti opposti come Gabriele Lavia e Romeo Castellucci? L’ Amleto di Lavia (1978), così lo ricordo, deborda da ogni parte, sopraffà, devasta, smantella, entra ed esce dal ruolo: non c’è che lui. È così anche per l’ Amleto di Castellucci (1992), che però si rinchiude in sé, si nasconde, è gatto che gioca con il topo-spettatore, è macchiato di clamoroso, infelice autismo.
6. Solipsismo e ascetismo
Ovvero Carmelo Bene e Leo de Berardinis. Carmelo sposa Shakespeare attraverso Laforgue: ma lo ha «sposato» quattro volte. Micidiale Hommelette for Hamlet (1987). Carmelo vi si manifesta a un terzo o quarto grado: beato, dannato, personaggio, uomo-attore. Ma egli è tutto nel ruolo. Pound aveva scritto che Laforgue era «per nove decimi un critico», e così è stato l’ Amleto di Carmelo: il regista critico; il personaggio critico di sé medesimo; il dannato critico dei costumi, del mondo, della vita; il beato critico della conseguita beatitudine. Dopo il suo debutto del 1967 con La faticosa messa in scena dell’Amleto , Leo in Totò Principe di Danimarca (1993) è il cieco veggente, è il selvaggio, è l’ avite a murì che con il cappelluccio in testa di Totò prende a ceffoni la propria stessa oltranza, i propri oltraggi, la propria religione: Shakespeare, il Teatro.
7. Fine del mondo antico
Nell’ Amleto di Elio De Capitani del 1994 (così scrivevo): «Ciò che è morto e che l’eroe non può ripristinare è l’antica plenitudine, in cui cose e parole si corrispondono, in cui tutto era gerarchicamente e armoniosamente costituito. Che sia un detective-vendicatore che sta cercando di rimettere insieme i cocci, o un agnello votato in senso cristiano al sacrificio, cioè alla volontà di Dio, Amleto in ogni caso sa» quel che accade e a lui accadrà.
8. Quotidianità
L’ Amleto di Carlo Cecchi (1989) non mi piacque per le ragioni che lo rendono a distanza di anni importante. Era un Amleto in pantofole. Perché, si chiedeva Cecchi, i classici debbono essere altisonanti, impettiti, un po’ boriosi, un po’ insinuanti? (Così era in fondo, lo dico ora, l’ Amleto di Gassman del 1955). Nello spettacolo di Cecchi la reggia si trasformava in una casa borghese, gli accadimenti erano feriali, roba di tutti i giorni, le cose che vediamo in televisione e che potrebbero capitare a ciascuno di noi.
9. Arcaismo
Ma a questo punto, perché non tornare alle origini? Arriva allora nello stesso 1989 Jurij Ljubimov, arriva un attore del calibro di Daniel Webb. Il sipario mobile, ossia disponibile, ossia veloce; quel sipario in similcanapa, rozzo, primitivo, tessuto in arazzi e disegni visibili solo con effetti di luce, ci parlava del suo contrario, la resistenza del testo, la sua scorbutica giovinezza, la sua integrità nonostante la macerazione che il tempo opera su di esso (in verde sottobosco, viola mosto, rosso vino, azzurro lavagna).
10. Il Ritorno
Ed ecco l’apparizione dello Spettro a cavallo nello spazio vuoto del Palais des Papes ad Avignone nel 1988. È l’Amleto di Patrice Chéreau: in esso la nudità della scena e il dominio degli attori (Gérard Desarthe o Marthe Keller) segnalano la volontà di fare piazza pulita dell’eccesso di immagini che i precedenti vent’anni avevano lasciato crescere sui dialoghi, fin quasi ad annullarli. Non vi era che un pavimento in forma di boîte à surprise , ovvero di magazzino dell’anima. Torniamo, ci diceva il regista francese, alla grande anima del Principe di Danimarca.
11. La politica
Salgono al ricordo due nomi di registi dell’Est, assai dissimili tra loro. Il Gamlet di Kozintsev (1964) è ascetico non meno che quello di Leo de Berardinis, anzi di più, Kozintsev è pur sempre un russo. Eppure il suo Principe in bianco e nero non agli assalti del tempo sembra opporsi ma a quelli del mondo che lo circonda: la sua infamia, la sua repressione nascosta da affetto, da attenzione, da cura di chi c’è dal momento che chi c’è dopotutto è chi verrà (dopo di noi, che ora ci occupiamo di lui, o di loro). Lo stesso accade nell’ Amleto di Wajda (1982). Ma in Wajda non vi sono tracce di spiritualismo, nessuna scappatoia, il mondo è quello che vedete, nudo e crudo: i fratelli assassinano i fratelli, le madri forse amano i propri figli ma di più amano se stesse, gli amici ci tradiscono.
12. Lo stile
Che dire dello Hamletas di Nekrošius (1999) che non possa essere detto di qualunque suo spettacolo, tratto da Shakespeare o da altro autore? Per Nekrošius scappatoie non ce ne sono più. O meglio: non ne rimane che una, lo stile. I nostri movimenti sono ormai soprassalti, emozioni incontrollabili, scatti, corse, arresti improvvisi e immotivati: un circo. Anche la corte di Danimarca è una specie di circo, una sarabanda, un gioco di luci, una esibizione disperata di quella che fu la nostra anima – che ora non c’è più, si è dissolta nella storia, nel tempo.
13. Globalizzazione
O, forse, di vie di fuga (siamo nel nuovo millennio, siamo nel 2002) una ce n’è. Ce la offre il mondo. La globalizzazione non produce una ricchezza che chiamiamo multiculturalismo? E pazienza se tale ricchezza non è che un piccolo tappeto colorato, il teatro in sé, tutto il teatro. Lì si condensa l’ Amleto di Peter Brook, in un tappeto tessuto a mano, quasi rosa, e in un Principe splendente (è William Nadylam), la cui nera pelle brilla nelle luci della scena, ovvero nella sua solitudine.
Per chiudere quel taccuino, non più intonso, all’uscita del Barbican mi dico che potrebbe esservi un numero 14 . Che so: Femminismo , o Quote Rosa . Lindsay Turner sarebbe l’unica donna della lista. Con i piedi per terra mi riconducono due ragazzi. Lei è una francese di Grenoble, lui è un italiano che ha in mano una copia sgualcitissima de L’uomo in bilico di Bellow, in edizione Penguin. «Viviamo a Londra (mi dicono), è che gli inglesi sono prevedibili. Mai uno slancio, mai un gesto improvviso. Anche noi avevamo prenotato il biglietto da sei mesi». Gli chiedo se è un giudizio negativo sullo spettacolo. «Oh no! è divertente, e Cumberbatch è bello». Sì, ho capito. Ma che fa? Come si comporta? E, soprattutto, dove sta? A essere sinceri, non si capisce. Nella prima scena, buttato per terra davanti a un giradischi, a sentire Nat King Cole. La seconda è imponente, solo in un teatro inglese se ne può vedere una simile: una magione borghese di primo Novecento, a due piani, dove si celebra una festa: con lampadari sfavillanti, fiori, maggiordomi. È la festa di Claudio e Gertrude. Amleto-Cumberbatch, vestito come noi, di scuro, sta seduto tra gli altri. Ma Claudio, il nuovo re, è proprio un re? E poi, che senso hanno i fucili in questa casa? È davvero uno spettro, quello che Amleto, Orazio con zaino in spalla, e gli altri, vedono apparire dal ballatoio? Esso, lo spettro del re ucciso, riapparirà nel teatrino che Amleto ha allestito per la famosa recita: un teatrino per bambini. Era stato messo — al posto di un castelluccio circondato da quattro soldati-pupazzi in divisa dei tempi di Gladstone, più o meno — su un lato della sala da pranzo. Ed è proprio in quel teatrino che l’Amleto non sanguinario, non vendicativo, mai furioso, mai perplesso, ucciderà Polonio, che vi si era nascosto.
Un assassinio in un teatro: sarà verità o finzione? Più che altro sembra un gioco. Lo spettacolo domande non ne pone, si limita ad esibire un’«idea»: Amleto non si finge «fuori di senno», ma bambino o, per meglio dire, quel bambino che era o ancora è. Un numero 14 dovrebbe avere un titolo per il nostro tempo: Infantilismo.