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 2015  settembre 06 Domenica calendario

DA ASSISTENTE A VIRTUOSO: PIERO MESSINA DIVIDE I CRITICI

Dove lo scetticismo regna, non esiste possibile resurrezione. Per chi è volato in cielo e per i veri dannati costretti a rimanere sulla terra a lacrimare, con il sotteso desiderio di punirsi, essere altrove, sprofondare. Sicilia di confine. Ulivi protetti dalla malta, maioliche, vento, tempo immobile, profumo d’ancestrale. Juliette Binoche abita le stanze di una tenuta in cui le persiane sono chiuse, i quadri coperti da drappi scuri e la luce, dopo il lutto, non filtra più. C’è un funerale. Qualcuno è morto. E anche se la sequenza iniziale de L’Attesa di Piero Messina – primo film della fitta teoria di italiani selezionati in concorso a sottoporsi al giudizio di pubblico e stampa (quasi 10 minuti di applausi alla proiezione delle 17) – suggerirebbe di guardare a dio e il dolore che si avverte è di ascendenza nietzschiana: “Che acqua useremo per lavarci? Che festività di perdono, che sacro gioco dovremo inventarci? Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi?” è nei gesti meditati, nella concretezza delle ore che trascorrono lente e nel senso che è necessario attribuire al tempo e al ricordo per continuare a stare in piedi che si può trovare se non la salvezza, almeno una ragione per andare avanti.
Ne L’Attesa (prodotto per Indigo da Nicola Giuliano, Francesca Cima e Carlotta Calori, distribuisce Medusa dal 17 settembre, in circa 150 copie) come nota acutamente Variety che unitamente a Screen international ha incensato il film: “Ogni cosa è volutamente ambigua”. Non si spiega chi si stia piangendo e non è chiaro se Binoche (Anna) e la sua giovane ospite, la sorprendente Lou de Laâge atterrata tra vedute laviche e paesaggi spettrali per raggiungere il fidanzato nell’attesa di un ritorno che fin dal principio è niente più di un’ipotesi di miracolo, impareranno a conoscersi così bene da volersi dividere immediatamente o al contrario, da non volersi separare più. Nel paese che deifica e poi abbatte statue al sempre alimentato ritmo dell’invidia, “sorrentinismo”, curiosamente, è già diventato un aggettivo al limitare dell’insulto. Così Piero Messina che di Paolo Sorrentino è stato assistente, è accusato dai detrattori di avere esagerato con le citazioni del mentore, con i virtuosismi e con gli effetti speciali: “Questi nuovi registi non hanno più fiducia nella realtà, è tutto saturato, dai colori, al racconto, alla recitazione” si dicono autoconvincendosi zazzeruti cinefili all’uscita della proiezione del mattino e magnificato da chi invece, nella sua sottrazione costante, nel suo monumento eretto al valore del silenzio e nel suo procedere senza fretta alla ricerca di una soluzione, vede una cifra stilistica originale, coraggiosa e innovativa.
Due partiti divisi su tutto. Chi grida al capolavoro e chi alla boiata perché di voglia di gogna, a Venezia, non si è mai sazi. Chi accetta di stare al gioco e si fa trasportare in una sfera musicale e visiva ipnotica e inquietante arrivando a commuoversi nel notevole finale e chi rifiuta in toto l’assunto perché considera insincero e posticcio ogni singolo fotogramma. Ne L’attesa non tutto è perfetto, c’è qualche eccesso di simbolismo, ma gli ultimi 20 minuti emozionano davvero. Nel racconto c’è un’ispirazione pirandelliana, certo, ma nello scambio osmotico e profondo tra una donna matura travolta dal dramma e una ragazza chiamata alla più dura delle iniziazioni sentimentali, L’attesa sventola la bandiera di un’autonomia propria che non teme il rischio di provocare irritazione (segno di personalità, più che mai a 32 anni) e osa cercare nei frammenti di un discorso amoroso quel che dell’amore rimane dopo stordimento, delirio e tempesta.
Da piogge torrenziali, freddo improvviso e arcobaleni doppi sul mare dopo la buriana, è stato investito anche il Lido. Travolto nella notte di Venerdì dal meritato entusiasmo per Bangland di Lorenzo Berghella presentato come progetto speciale alle Giornate degli Autori, sezione che da qualche anno presenta alcuni dei film più interessanti. Bangland è una graphic novel nata da un esperimento irradiato sulla web tv (la serie originaria si intitolava Too bad) trasportata al cinema, prodotta da Ròfilm e da Gianluca Arcopinto con il contributo del collettivo Mina e costata meno di 100.000 euro. Ideata, curata e animata con stile, padronanza e convincente sapienza dei meccanismi narrativi e della storia americana più o meno recente, da un ragazzo abruzzese di 25 anni (chapeau) che ha frequentato (a quanto pare con profitto) l’Ifa, la scuola di animazione di Alessandro e Cristiano Di Felice. Nella città di Bangland, mentre dagli schermi tv il presidente della Nazione Steven Spielberg arringa il popolo e dopo l’abbattimento delle torri gemelle dichiara guerra a Mahaba (un ipotetico Iraq) si vive di razzismo, violenze, ingiustizie, malata pornografia senza l’ombra di una gioia, pestaggi, sottomissioni, allarmi inventati a tavolino e diseguaglianze.
Scatenata, spiritosa, mai moralista e traversata da un umorismo nerissimo che rielabora il reale in chiave grottesca e impasta i santini di John Wayne, l’attentato di Dallas, la mania per le armi, la paura del diverso, i telepredicatori cattolici, Guantanamo, la violenza della polizia, le dittature mascherate da democrazie. Qui ci fermiamo per mancanza di spazio, per non rivelare ogni passo di un film che merita di essere visto e sarà distribuito nella sale tra novembre e dicembre dalla Pablo. Il suo autore intanto verrà omaggiato il 9 settembre in laguna con il premio Monicelli per il talento emergente del 2015. Una targa meritata, nella sciovinista attesa di altri riconoscimenti. Oggi è il giorno di A Bigger Splash di Luca Guadagnino. Chi l’ha già visto, giura che tuffarsi nella piscina del regista di Palermo, sarà come nuotare in mare aperto.
Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 6/9/2015