Giovanni Orsina, La Stampa 6/9/2015, 6 settembre 2015
PERCHÉ SI DEVE TORNARE ALLA POLITICA
Con la sua insopportabile violenza simbolica, la foto di Aylan richiama (dovrebbe richiamare) la nostra attenzione sull’importanza della politica, e ancor più della responsabilità politica. Non intendo sostenere che di quella tragedia dobbiamo considerarci colpevoli noi pasciuti occidentali, e che perciò, spinti dalla pietà, dall’indignazione e dai sensi di colpa, dovremmo solennemente impegnarci perché «questo non si ripeta mai più». Per certi versi intendo sostenere il contrario, anzi: quel piccolo morto (insieme alle molte centinaia che l’hanno preceduto) dovrebbe insegnarci che la politica non si fa con la pietà, l’indignazione e i sensi di colpa.
Ma, appunto, col senso di responsabilità e di realtà.
I molti italiani che, come me, sono entrati nell’età adulta nei dintorni del 1989, sono maturati sentendosi dire che la politica, in fondo, non serviva più. Era finita la storia, quindi non c’era più bisogno di affrontarla politicamente. Erano finiti gli stati-nazione, i soggetti entro i quali e fra i quali si svolgeva la politica. Era finito il potere, ossia il cardine su cui ruota la politica. Il piccolo siriano, morto di politica, ci mostra come più chiaramente non si potrebbe che gli stati-nazione (e i loro confini), il potere (per il quale si fanno le guerre), la storia (entro la quale si tracciano i confini e ci si scontra per il potere) non sono finiti proprio per niente. La fine della politica era un miraggio, l’illusione di una stagione effimera. La realtà era, ed è, una crisi gravissima della politica, dalla quale faremmo bene a uscire il più velocemente possibile, perché di politica invece c’è ancora un gran bisogno.
Il problema, però, è che nel frattempo abbiamo disimparato che cosa voglia dire far politica. Lo ha disimparato l’Europa, che dopo essersi massacrata di politica in due guerre mondiali ha scelto la via della depoliticizzazione: riconciliare gli interessi, soffocare le identità, edulcorare i conflitti. E che quindi ogni qual volta c’è da far politica mostra la propria fragilità, dimostrandosi miope e lenta nell’anticipare le sfide, ostaggio delle emozioni, incapace, anche quando decide di agire, di dare continuità alle proprie azioni. Basti pensare al disastro combinato in Libia. O si guardi proprio alle politiche della migrazione: oggi i rifugiati sono accolti in Germania con applausi e sulle note dell’Inno alla Gioia – benone, ma viene da chiedersi perché ieri non fosse così, e soprattutto che cosa sarà domani.
E ha dimenticato che cosa sia la politica, ancora di più, l’Italia. Da due o forse tre decenni ormai – ma il fenomeno negli ultimi anni si è fatto ben più visibile – gli italiani si sono convinti che la politica sia un’attività non soltanto non necessaria, ma dannosa, fonte unicamente di sprechi, corruzione e privilegi. La priorità assoluta, a tratti l’unica priorità, è diventata quella di tagliare i costi, evitare gli abusi, indagare gli scontrini dei rimborsi spese. Gli italiani si sono persuasi poi che la politica possa essere fatta da chiunque – imprenditori, tecnocrati, cittadini qualunque, giovanotti di belle speranze –, a prescindere da qualsiasi loro capacità o esperienza specificamente politiche. E che anzi chi ha capacità ed esperienza specificamente politiche debba essere bandito dall’arena politica proprio perché le ha, e perciò è «vecchio». Infine, credono ormai che votare non serva a costruire nulla, ma soltanto a esprimere frustrazione e indignazione. Insomma: si è consolidata la sensazione, potentemente alimentata dagli stessi politici e dai media, che la politica non sia altro che un trastullo fatuo, effimero, privo di conseguenze. Un gioco, ancora una volta, da irresponsabili.
Dal Medio Oriente e dall’Africa, ma anche dalla Russia e dalla Cina, arrivano segnali sempre più chiari che questa irresponsabilità potrebbe costarci molto cara. Di fronte a questi segnali faremmo bene a rimparare quanto prima, eletti ed elettori, che la politica non è affatto finita; che ha delle regole ben precise e va fatta da chi la sa fare; e soprattutto che non è affatto un gioco, ma un’attività tragica, nella quale talvolta si decide della vita e della morte.
Giovanni Orsina, La Stampa 6/9/2015