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 2015  settembre 06 Domenica calendario

DAL MONTE MCKINLEY A PLACE DES VOSGES, LA BATTAGLIA SUI NOMI È LA NOSTRA OSSESSIONE

Il monte McKinley, la cima più alta del continente americano, d’ora in poi assumerà il nome indigeno di Denali, che significa “L’alto”. La decisione del presidente Obama ha suscitato qualche isterismo, anche se limitato al gruppo degli isterici prevedibili. Può darsi che sia perché ora non si chiama nemmeno più Monte Denali, ma solo Denali, e lo shock suscitato ricorda quello dei vostri genitori quando gli spiegavate, spazientiti, che il nome del gruppo musicale non era “The Cream” ma “Cream”.
L’isterismo pare derivi dal sospetto che si sia preferito il nome nuovo, o meglio quello originale, in quanto più “politicamente corretto”. La politica dell’identità a 6.000 metri! La protesta è divampata tra accuse di essersi prostrati di fronte agli Yupik o Inuit o di aver scelto un nome nuovo solo perché quella gente lo fa. Attenti, lasciate che Obama cambi nome a una montagna e in men che non si dica potrebbe fare qualche danno davvero grave, tipo evitare le guerre inutili o estendere l’assistenza sanitaria ai derelitti. E su internet girava voce che “Denali” in “keniano” significasse potere nero (cosa per altro non vera) o fosse l’anagramma di “Denial”, negazione, chissà, forse del nostro glorioso passato imperiale. Ha mantenuto un silenzio piuttosto rivelatore l’ex governatore Sarah Palin, magari per il semplice fatto che anche lei sembra aver parte in questo nuovo complotto contro l’America, perché ha chiamato la montagna Denali , come spesso si fa in Alaska, persino nel suo discorso di dimissioni. Stranamente nessuno ha citato l’occasione precedente in cui il nome di un presidente liberal è stato tolto a una penisola intera senza suscitare alcuna protesta. Nel 1963 la famiglia Kennedy avanzò la modesta proposta di intitolare al presidente assassinato il centro spaziale della Florida, alla cui realizzazione aveva dedicato tante energie. L.B.J., con il gusto dell’esagerazione tipico dei texani , fece ribattezzare l’intera penisola di Cape Canaveral Cape Kennedy, in onore di J.F.K. Il nome originale però era popolare e dopo solo dieci anni lo stato della Florida fece marcia indietro. Le autorità federali acconsentirono e la famiglia Kennedy, nonché i liberal in generale, tacquero, come si conviene.
La verità è che attribuire una valenza magica alle parole e ai nomi è un’ossessione primitiva, di per sé irrazionale. Il desiderio di rimediare ai torti del passato variando la terminologia è ben radicato. Durante e dopo la rivoluzione francese una frenesia rinominatrice trasformò Place Louis XV nella insanguinata Place de la Révolution e infine nella conciliatoria Place de la Concorde, e la Place Royale nella prosaica Place des Vosges (i Vosgi furono il dipartimento francese più sollecito a pagare le tasse di Napoleone). I nomi di certe cose cambiano a seconda dei proprietari. La montagna che noi chiamiamo Everest nell’Ottocento prese il nome di un gallese, anche se i tibetani la chiamavano Chomolungma, “Madre dell’universo”. (Stranamente se il nome del gallese fosse pronunciato correttamente sarebbe nota come Eve-Rest, la sepoltura di Eva, evocherebbe così l’ultima dimora della madre di noi tutti, invece del superlativo di “ever”). Più di recente il governo nepalese con un’iniziativa di carattere piuttosto nazionalistico, ha recuperato alla montagna il nome sanscrito di Sagarmatha. Certi nuovi nomi non attecchiscono mai, e i vecchi nomi restano saldamente radicati, qualunque cosa dicano o facciano i presidenti. Una ragazza sedicenne l’altro giorno chiedeva a suo padre di spiegarle come mai sulla lower Sixth Avenue ci fossero gli stemmi di Cuba e Canada. Il padre le ha spiegato che la via un tempo si chiamava Avenue of the Americas – il nome è sempre quello ma nessuno la chiama così.
In genere cambiare i nomi del passato per adeguarli al presente è innocuo, o stupido, ma in certi casi ha risvolti provocatori e aggressivi. Andrew Jackson, killer di indiani e razzista incallito, dà nome e volto alla banconota da venti dollari. Dovremmo cancellarne l’immagine dalla nostra cartamoneta come abbiamo cancellato Mc-Kinley dalla montagna? Dovremmo cambiar nome alle strade, ridedicare i monumenti, riqualificare i presidenti per adeguarli alla nostra cultura? È ovvio – o dovrebbe esserlo – che non possiamo cambiar nome o ordine a tutte le vestigia del passato sulla base delle fedi del presente, per il semplice motivo che le fedi del presente non saranno le fedi del futuro. Uno dei molti mali dell’Is e dei Taliban è il desiderio di ricostruire il passato totalmente a loro immagine; cambiare i vecchi nomi con troppa disinvoltura è come far saltare i Buddha, solo in forma più innocua. Il pluralismo ha esigenze retrospettive, storiche, oltre che immediate. New York non dovrebbe tornare a essere New Amsterdam, indipendentemente dal fervore di ogni possibile revanchismo Olandese.
Possiamo però distinguere abbastanza facilmente tra i passati ostinati e quelli facilmente superabili – non c’è mica bisogno che una montagna dell’Alaska dal nome indigeno bello e antico si chiami come un politico dell’Ohio che non l’ha mai vista da vicino. Cambiando nome non insultiamo William McKinley, l’ex presidente; rendiamo onore alla montagna e alle prime persone che l’hanno guardata tanto spesso da amarla. Esiste, in generale, una soluzione semplice al problema di quando adeguare il passato al presente. Basta che ci chiediamo quale fosse la visione più umana dell’epoca e se il nome o le persone che onoriamo la proclamino o meno. La schiavitù è un buon esempio. Già alla metà del Settecento Samuel Johnson, il maggior poeta conservatore di lingua inglese, ne denunciò i mali; sosteneva che la rivoluzione americana si fosse irrimediabilmente macchiata di ipocrisia sull’argomento. Coloro che allora e in seguito giustificavano la schiavitù non erano semplicemente individui di una certa epoca e di un certo carattere. Erano ingiusti, denunciati come tali dai loro contemporanei giusti. Quando li onoriamo, ad esempio sul fianco di una montagna in Georgia, onoriamo l’ingiustizia, potenzialmente riconosciuta da tutti.
Quindi via i nomi e le immagini degli ingiusti dalle banconote e dalle strade, ma ricordiamoci che anche noi siamo o saremo considerati ingiusti secondo criteri che ancora non riusciamo a concepire. Nulla dipende dai nomi. La montagna non si alzerà né si abbasserà di un centimetro e non cambierà natura a seconda del nome che le diamo. Non siamo schiavi della lingua che abbiamo in bocca, ma cittadini delle lingue che parliamo.
(Il testo è uscito sul New Yorker Traduzione di Emilia Benghi)
Adam Gopnik, la Repubblica 6/9/2015