Aldo Nove, Sette 4/9/ 2015, 4 settembre 2015
L’ACQUA MAGICA CHE MISCHIÒ I PROFUMI DELLE CLASSI SOCIALI
La mitica famiglia Farina. Se ne potrebbe scrivere un romanzo dalla trama estremamente complessa. Al narrator e poi dipanarne i fili, tentarne un finale. Ma la storia, quella vera, ci ha lasciato solo questo nome, anzi, questo cognome, e proveremo qui a ricostruirne quanto ci è dato per “quasi” certo. Ne vale la pena, perché fu proprio un signore chiamato Farina a inventare quello che è stato il profumo commerciale più famoso e imitato della storia, tutt’ora in vendita in svariate versioni e massimo successo della profumeria dell’Ottocento, l’Acqua di Colonia. Fu probabilmente inventato da un certo Giovanni Maria Farina, nel 1709. Farina era un veneziano trapiantato a Colonia. Questa la prima tesi. La seconda sostiene invece che il Farina a cui va attribuita sì illustre invenzione fu il milanese Giovanni Paolo De Feminis che, stabilitosi a Colonia nel 1736, fabbricò il noto profumo (chiamato originariamente Acqua Mirabilis) alla fine del Seicento e donò poi la ricetta segreta al nipote che, di nuovo, si sarebbe chiamato Giovanni Maria Farina. Che il business fosse colossale venne intuito subito. Vi fu un’invasione di massa, a Colonia, di Giovanni Maria Farina che rivendicavano di essere gli inventori della magica pozione. Vi furono liti interminabili per stabilire quale Farina fosse l’autentico inventore dell’intruglio.
Scrivo intruglio e non semplicemente profumo perché, a lungo, l’Acqua di Colonia fu considerata anche un complesso di erbe dalle virtù terapeutiche le più svariate. Un’antica pubblicità della ditta Genumber dem Jülichs-Platz (leggo su La civiltà de profumo di Malgorzata Biniecka, ottima monografia sull’argomento sul piano innanzitutto scientifico) riportava letteralmente che: «Questo è uno spirito volatile fatto con le più scelte erbe medicinali che rinforza le parti più deboli del corpo. Questo è il potente farmaco che contro l’apoplessia, il torcicollo, la podagra e il cardiopalma. Consola immediatamente le donne nei parti più dolorosi. Elimina il fastidioso sibilo delle orecchie, colma i mali degli occhi e dei denti». Come vediamo, l’aspetto “magico”, o quantomeno curativo, del profumo, resta una costante millenaria, che dalle pozioni egiziane arriva all’odierna aromaterapia. Certo, rispetto ai “pesanti” profumi dell’antichità, e a prescindere dai presunti o meno aspetti curativi, l’Acqua di Colonia era fresca e rigenerante.
Potremmo in questo rintracciare un elemento di quel difficile quanto pervasivo elemento che è il moderno: un profumo non impegnativo, dotato di parecchie virtù immediatamente percettibili (un senso tonificante, una sferzata di energia) e soprattutto relativamente a buon mercato (tra le decine di Acqua di Colonia diffusesi nel mondo, solo due resistettero nel tempo, quella prodotta a parigi dal 1848 da Roger&Gallet e quella, creata da una delle famiglie Farina, ceduta nel 1792 a W. Muelhens di Colonia. Il negozio fu situato al numero 4711 di una strada di Colonia, ed è ancora prodotta su larga scala, e di facile reperibilità a un prezzo molto contenuto, con il nome Acqua di Colonia Originale 4711). Un altro celebre fan dell’Acqua di Colonia fu Goethe, dalla cui corrispondenza ci risulta ne ordinasse grossi quantitativi. L’Acqua di Colonia si diffuse con grande velocità in tutta Europa, fu usata e reclamizzata dal re soldato Federico Guglielmo I ma innanzitutto da Napoleone Bonaparte, che ne fu un vero fanatico, tanto da imporlo a tutte le donne della sua corte e a diffonderlo in tutti gli ambienti da lui frequentati.
Dove c’era Napoleone, c’era Acqua di Colonia. Si diceva che Napoleone ne usasse personalmente più litri al giorno e che, come non ci appare strano dalla pubblicità che abbiamo visto sopra, la bevesse. Giuseppina Beahauharnais apprezzava innanzitutto l’odore di violetta e Napoleone gliene regalava quantitativi immensi. Così come, alla morte di lei, nel 1814, dal suo esilio all’Elba Napoleone le fece pervenire uno straordinario bouquet di violette. Pure la seconda moglie di Napoleone, Maria Luigia, fu una fanatica della violetta, che se ne fece realizzare un’apposita essenza. La formula fu poi acquistata dalla famiglia di Lodovico Borsari che fondò la grande industria italiana dei profumi, la Borsari, appunto, che allora come oggi produce la celeberrima Violetta di Parma.
Parliamo sempre di mondi aristocratici, e che si potevano permettere di “rettificare” una società ancora potentemente avvolta dai miasmi attraverso una diffusione sempre più capillare e mirata dell’arte profumiera. Scompaiono così, lentamente, i profumi più “pesanti”, quelli delle parrucche settecentesche, ad esempio, mentre prende sempre più corpo, nelle classi agiate, il “valore” di un’accurata pulizia corporale, in qualche modo dimenticata dai tempi dell’antica Roma. Pure, persiste il fascino “peccaminoso” dei profumi più forti e della loro potenza seduttiva. Fu l’inizio dell’Ottocento, era di forti contrasti: da un lato il profumo “lieve, soave”, si contrapponeva alla grettezza del secolo precedente, dall’altro, la voglia di liberare il lato animale della sensualità continuava a imporsi e contrapporsi senza soluzione di continuità. Tutto questo, mentre un altro mondo, contiguo, quello dei poveri, affondava nelle puzze più insostenibili.
Odor di trasgressione. In modo estremamente radicale, Lemery classificava, agli inizi del Settecento, tre tipi di profumi: uno per la nobiltà, uno per la borghesia, uno per i poveri. Il secolo successivo non fu da meno, anche se tese a cambiare, in parte, o perlomeno a confondere, i primi due, anche se i borghesi tesero sempre più a una profumazione “garbata” contro gli eccessi. Mentre costante rimase l’attrazione (segreta) per il terzo, essenza di un connubio tra fragranza animale (e eccitante) e sporcizia che si riassumeva nell’idea di peccato, di trasgressione, di volontà di degradazione da parte di chi poteva scegliere di degradarsi per lussuria senza esserne obbligata dalla condizione sociale.
Da un certo punto in poi, la storia del profumo si intreccia in modo forse più radicale che mai con quella delle differenti classe sociali, di cui diventa una specie di controverso biglietto da visita. Controverso quanto le teorie che dominarono quegli anni. Rousseau, ad esempio, osteggiò sempre l’uso del profumo. Ecco un suo passo sul tema, dal celeberrimo Emilio o dell’educazione: «Sofia non conosce altro profumo che quello dei fiori e mai suo marito ne respirerà uno più dolce del suo alito. Infine, l’attenzione che essa dedica al suo aspetto esteriore non le fa dimenticare la sua vita e il suo tempo a cure più nobili: ignora e disprezza quella eccessiva pulizia del corpo che insudicia l’anima. Sofia è assai più che pulita: è pura».
Ed ecco che l’idea di pulizia fisica come “lordura dell’anima”, uscita dalla porta principale del tempo attraverso il rigetto dei dogmi religiosi più estremi, ritorna dalla finestra di un’astratta purezza “edenica”, quella appunto del “buon selvaggio”. Ma a Rousseau non si prestò molta attenzione se non nei circoli letterari. La diffusione del profumo divenne inarrestabile e le donne più ricche erano solite farsene fare su “misura”, proprio come per i vestiti. Alessandra, moglie di Edoardo VIII di Inghilterra, usava soltanto il suo personalissimo White Rose, di cui venivano impregnati tutti i suoi oggetti personali: libri, biglietti da visita, fazzoletti etc. La ditta Atktinson inventò nel 1885 il suo Legno di sandalo che, a quanto pare, fu il profumo più di successo del 1885. Questo mentre si diffondeva sempre di più una nuova essenza, quella dell’Iris, prodotto dal rizoma del fiore che era molto diffuso nei paraggi di Firenze e Siena e proprio il villaggio di San Paolo ne divenne il centro della coltura. Trecento tonnellate all’anno che poi venivano lavorate a Grasse. Ma fu nel 1856 che avvenne forse la più grande rivoluzione della profumeria dai tempi della sua origine e provenne dal campo della chimica. Nel 1856 Perkin ottenne la prima tintura all’anilina, il famoso colore “malva” derivato dal catrame minerale. Dodici anni dopo, il chimico sintetizzò dal catrame vegetale la cumarina, presente in natura, per quanto in quantità modeste, nelle fragole, nelle ciliegie e nell’albicocca. La cumarina sapeva di fave di tonka, che da allora divennero una delle essenze più in voga. Paul Parquet, intanto, inventò il profumo di “fieno fresco artificiale” unendo cumarina e le note naturali di geranio e bergamotto. Era nato il profumo moderno.
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