Giuseppe Lupo, Il Sole 24 Ore 30/8/2015, 30 agosto 2015
DAL PARNASO ALLE GOMME
A dispetto di quanto dichiarava Benedetto Croce nelle pagine di Estetica (1902), il Novecento ha ampiamente dimostrato che la distinzione tra poesia e non poesia si sarebbe rivelata una formula inutile, fuorviante, falsa, e che anzi i germogli della letteratura e dell’arte potevano e dovevano sbocciare anche nei luoghi meno deputati, come i cartelloni pubblicitari o le riviste aziendali. Le muse, nel secolo scorso, hanno finalmente abbandonato il fresco dei boschi e delle fontane per respirare la caligine delle fonderie, si sono sporcate le vesti con il grasso dei lubrificanti, scegliendo la via più ispida (ma non per questo priva di ambizioni) per raccontare un tempo di fughe in avanti, di salti nel buio, di corse sfrenate verso le ciminiere delle periferie o le catene di montaggio. Potevano davvero, queste muse, passeggiare tra battistrada e cavi di gomma dalle parti della Bicocca, stabilirsi tra le ruote della Pirelli, come indica il titolo di questo catalogo? Indubbiamente sì: era tempo che scendessero dal Parnaso. Ciò tuttavia non acquieta il trauma del passaggio, semmai introduce nel discorso le numerose contraddizioni che la modernità reca in grembo. Nel postulare l’ingresso delle muse in fabbrica, infatti, non solo vengono a confermarsi le ambiguità di un secolo che ha lungamente oscillato fra memoria di un’arcadia felice e faticosa rincorsa del progresso, ma si riconoscono i segni epocali di un cambio di civiltà fortemente caldeggiato dagli stessi imprenditori, pur con molte ombre, e di cui il nostro Paese è stato controverso palcoscenico. Non avrebbe avuto senso sostituire una retorica con un’altra, cancellare definitivamente la finta pace contadina con il mito rumoroso delle macchine, piuttosto individuare il linguaggio più idoneo attraverso cui comunicare la fabbrica.
Ed è su questo delicatissimo tema - nel rischio cioè di elevare al dio tecnologico un decalogo monumentale, troppo esibito e ridondante, così come scelsero di fare i futuristi - che si misura il carattere di un’azienda, si apprendono le differenze di stile e di linguaggio, si percepisce la capacità di autorappresentare se stessa. A passare in rassegna le pagine che raccontano cento anni di comunicazione (conservate nell’Archivio Storico della Fondazione Pirelli e ora confluite in questo catalogo), si scova il carattere di una scelta antiretorica. Per esempio nel 1961, per promuovere un modello di cinturato, Riccardo Manzi disegna a pastelli blu un omino che stringe un volante nelle mani, porta il cappello in testa e ha la vista impedita da un copertone di automobile. “A occhi chiusi” - questo lo slogan - non voleva essere un invito a sfidare il destino con atteggiamento irresponsabile, ma a sentirsi protetti, al sicuro dal pericolo della strada. Qualcosa del genere realizza Gino Boccasile dieci anni prima, quando colloca a centro scena un’immensa borsa per l’acqua calda, di colore rosso, che favorisce la schiusa di un uovo e la nascita di un pulcino. Poco importa che, a sorpresa, il mondo animale fa il suo ingresso dentro un panorama di sogni meccanici. Il pulcino non è che il rappresentante di un bestiario stravagante, al cui interno saltellano ranocchi con tacco Stella, tartarughe che esibiscono suole Pirelli, pesci che nuotano fra gli articoli di pesca subacquea, tigri che artigliano l’asfalto come pneumatici Stelvio, elefanti solidi come il battistrada Atlante. Se l’obiettivo di questo linguaggio a metà tra favola e fumetto, tra ironia e incanto, era soddisfare il criterio di sentirsi leader di un certo settore (che comprendeva pure impermeabili, attrezzatura da mare, tomaie, guanti in lattice), sarebbe stato sufficiente ricorrere a un linguaggio più dozzinale e immediato. Invece c’è dell’altro - chiamiamolo gusto, vocazione, stile - che eleva il manifesto pubblicitario a paradigma di un discorso aziendale, dilata i confini della tecnica, sposta l’asse dell’attenzione dall’oggetto alla cultura dell’oggetto e fa soffiare perfino un’aria ludica sopra quei prodotti che meno si prestano al gioco della leggerezza. È il caso di Bob Noorda e del suo bozzetto Per linee esterne (1959), in cui i passeri stanno in bilico sulla guaina che copre i cavi di gommaprene e butilprene. Che la Pirelli abbia maturato un rapporto di commistione con le arti è un dato che ci viene confermato dai nomi di Fortunato Depero, Marcello Nizzoli, Bruno Muna, Mino Maccari, Renzo Biasion, Domenico Cantatore, Armando Testa, Renato Guttuso. D’altra parte non poteva essere diversamente se si considera che nell’immediato secondo dopoguerra l’azienda scelse di affidare la propria immagine a Leonardo Sinisgalli (fondatore nel ’48 con Giuseppe Eugenio Luraghi e Arturo Tofanelli della «Rivista Pirelli») e a Vittorio Sereni: due poeti dalla natura eterogenea, entrambi espressione di quell’atteggiamento commisto che segna nel profondo la cultura milanese prima e durante la fase industriale.
È la «via tutta italiana alla pubblicità», ci ricorda Chiara Guizzi in uno dei saggi che accompagnano il catalogo: un momento sicuramente irripetibile, che Arrigo Castellani cercherà di difendere dalle mode statunitensi. Ed è un exemplum di quel politecnicismo che tanto ha significato in termini di progettualità culturale e civile, e ha fornito agli intellettuali la sensazione di sentirsi ancora utili.
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Una musa tra le ruote. Pirelli: un secolo di arte al servizio del prodotto , Un progetto di Fondazione Pirelli a cura di Giovanna Ginex, Fondazione Pirelli-Corraini Edizioni, Milano-Mantova, pagg. 444, € 50,00
Giuseppe Lupo, Il Sole 24 Ore 30/8/2015