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 2015  agosto 30 Domenica calendario

QUEI SOFTWARE PADRONI DEI LISTINI: IL 65% DEGLI SCAMBI DECISO DAI ROBOT

Il software, cavalcando gli innumerevoli sbalzi di Borsa di questi giorni, ha fatto il suo mestiere. Ha messo e tolto, quasi sempre in pochi secondi, migliaia di proposte di negoziazione. Si è infilato nei mille risvolti dello spread tra gli ordini di acquisto e vendita dei titoli. Insomma, ha sfruttato la volatilità.
Certo, la strategia non è un’esclusiva del flash trader. Molti investitori tradizionali fanno soldi con gli «strappi» del mercato. Tuttavia, non può negarsi che l’attuale contesto è tra i più adatti all’High frequency trading (Hft). Un’operatività che, nonostante le strette regolamentari, recita un ruolo da protagonista. A Wall Street i flash boys valgono circa il 50% dei volumi scambiati. La percentuale scende un po’ in Europa ma rimane comunque significativa. Si assesta al 40%.
Può obiettarsi: gli operatori ultra veloci hanno comunque perso slancio. Vero! E tuttavia c’è un aspetto di cui si parla poco. L’Hft è solo un risvolto di un fenomeno più ampio: la compravendita automatizzata. La quale, da un parte, non è legata alla velocità d’esecuzione. E, dall’altra, rappresenta un trend più articolato e profondo che si fa strada nella finanza. Un approccio in cui l’uomo, soprattutto nella fase operativa, tende a finire sullo sfondo. Il centro della scena, sempre più, è occupato dai robot.
La conferma? La fornisce Aite group. Negli Stati Uniti, indica la società di ricerca, il trading algoritmico è arrivato a scambiare circa il 65% dei volumi totali. Una dinamica, a differenza di quella degli operatori flash, in crescita. Nel 2010, ad esempio, il trading automatico pesava per il 60%. E nel 2008 era ancora più in giù (45%). Insomma, il rialzo è nei numeri. Quei numeri che, nel Vecchio continente, sono invece più limitati. In Europa i volumi scambiati tramite robot sono infatti intorno al 42%. Ciò detto, anche qui il trend è improntato alla crescita. E l’Italia? A Piazza Affari l’Hft, in avvio del 2015, valeva il 30% degli scambi. E tuttavia, al di là dei flash boys, nel nostro Paese l’algo trading è poco diffuso. «Il fenomeno – indica Enrico Malverti, trader e analista quantitativo tra i più conosciuti in Italia – da noi è molto meno sviluppato rispetto al mondo anglosassone. In particolare, è una questione di cultura finanziaria». Oltre che «di tempistica - aggiunge Nicola Scapillati di Banca Akros-. Si tratta di sistemi la cui diffusione, in Italia, è più recente. Con il che, da una parte, scontano i maggiori limiti imposti dai nuovi regolamenti. E, dall’altro, un sentimento meno favorevole».
Già, meno favorevole. Ma, detto della diversa diffusione geografica, come funziona il trading automatico? Una tra le strategie più utilizzate sfrutta l’analisi tecnica. «Se il prezzo del titolo supera il prezzo di... e la media mobile a.., allora compra…». Spesso è questo il tenore dello script (qui ovviamente semplificato) a base dell’eventuale programma di trading. Il quale, però, non è subito pronto per la Borsa. Impostata l’idea, questa è buttata nel database. Prima il test con l’andamento sugli ultimi 10 anni dell’azione stessa. Poi, l’analisi incrociata di altre variabili: l’orario di operatività, i volumi e la volatilità. Completato il valzer di dati, le stesse operazioni sono ripetute su altre azioni. E con altri livelli di prezzo. Alla fine, processate centinaia di statistiche, il computer elabora un report. Di lì salta fuori quale titolo e quale impostazione danno maggiore probabilità di guadagno. La stringa di software individuata vien fatta girare sul computer collegato alla Borsa. Seppure, ancora, in maniera virtuale. Solamente dopo quest’ultimo test la macchina inizia a comprare e vendere azioni con denaro vero. Insomma, il trading algoritmico entra in azione. «A ben vedere – spiega Giuseppe Belfiori di Ft Support, società che produce sistemi automatici di trading –, le logiche di base dell’investimento automatizzato sono diverse. Ad esempio, può puntarsi sulle correlazioni storiche tra un asset ed un altro. Oppure, viene sfruttata l’influenza di variabili fondamentali, dal Pil ai tassi d’interesse fino ai conti aziendali». Tutte le tipologie però hanno sempre un comune denominatore: l’assenza, nel momento della compravendita, dell’intervento dell’uomo.
Al che il signor Rossi domanda: perché sostituire il trader umano in favore del robot? La risposta è articolata. In generale è rilevante la convinzione che l’investitore non sia razionale. Cioè gli operatori, come mostrato fin dai tempi degli esperimenti di Amos Tversky e Daniel Kahneman (quest’ultimo Nobel per l’economia), al momento di comprare o vendere non riescono a massimizzare i benefici. Non sono efficienti. Gli algoritmi, invece, permettono (meglio dovrebbero permettere) di evitare abbagli. Di essere più efficaci. Ma non è solo la finzione dell’homo oeconomicus. Ci sono anche i cosiddetti big data. Vale a dire: la sempre maggiore quantità di informazioni digitalizzate da una parte è una miniera cui gli investitori non vogliono rinunciare; ma, dall’altra, la loro interpretazione è difficile. Soprattutto, se la scelta deve avvenire poco dopo la loro pubblicazione. Così, di nuovo, i cantori del trading automatico rivendicano l’efficienza di questo approccio. Il quale, a livello di esecuzione, è «indotto» dalle stesse normative internazionali. Un esempio? La MiFid. Nel 2007, quando l’Europa ha abbracciato il modello anglo-americano è ha messo le tradizionali Borse in competizione con le piattaforme alternative, gli intermediari hanno dovuto garantire la migliore esecuzione. Cioè, eseguire l’ordine sul mercato che offre le condizioni più favorevoli. Una scelta, da effettuarsi all’istante, che giocoforza mette in disparte l’uomo a favore del computer. Tutto questo può sembrare positivo. La realtà è più complessa. Al di là dei noti problemi legati agli Hft il rischio è di considerare i titoli semplici numeri. Da gestire, ad esempio, attraverso correlazioni con altri titoli (numeri). Dimenticando, però, che dietro ad un’azione c’è sempre un’azienda. Con le sue attività, la sua produzione i suoi uomini. Insomma, c’è il mondo reale che non deve essere sacrificato in onore del software e dei profitti della tecno-finanza.
Vittorio Carlini, Il Sole 24 Ore 30/8/2015