Antonio Pennacchi, il Fatto Quotidiano 30/8/2015, 30 agosto 2015
DARIO E IO, IN UNA BELLA NOTTE DI LUNA SENZA TEMPO
1 – Dario. Dario Evangelista era stato sepolto in terra venerdì 14 agosto 2015, nel cimitero di Borgo Hermada, comune di Terracina. Per tanti anni aveva lavorato in banca, prima a Anagni e a Latina, poi a Sabaudia e Terracina. Aveva 69 anni. Talentuoso pittore e finissimo poeta, lascia la moglie Patrizia e la figlia Eloisa. E lascia – affranti anch’essi – gli amici ed i vecchi compagni.
A lui è fortemente ispirato il personaggio di Serse nel romanzo Il fasciocomunista, ma ricorre anche in quasi tutti gli altri miei libri. Era arrivato con la famiglia dal bellunese a Latina nel 1967. Il padre Paolo era primo medico all’Inam e abitavano in via Garibaldi 5, vicino piazza Quadrata.
Noi ci conoscemmo il 1° ottobre di quell’anno, all’inizio delle scuole – quarantotto anni fa quindi – sui banchi del quinto geometri al Vittorio Veneto di Latina.
Non eravamo studenti modello. Ma esattamente come mio fratello Gianni, parecchie delle intuizioni che ho poi sviluppato e su cui ho lavorato tutta la vita, se non proprio originariamente sue sono però sicuramente frutto delle interminabili chiacchierate camminando a piedi di notte per le strade di Latina – avanti e indietro avanti e indietro all’infinito sulla circonvallazione o dal bar Dante al bar Poeta, che allora erano sempre aperti – fino alle prime luci del giorno, o facendo l’autostop sull’autostrada del Sole insieme a Pippo Muraglia.
Senza quelle chiacchierate, senza quei chilometri a piedi nelle notti bianche, senza quegli amici, non ci sarebbero – per quel poco che valgono – i miei libri.
A lui – a Dario Evangelista – debbo la scoperta della fantascienza e di tanti svariati autori. A lui – probabilmente – debbo anche l’approdo a sinistra.
“Riposa in pace Dariù, ti sia lieve la terra” gli avevo detto gettando sulla cassa il rituale pugno di sabbione sedimentario giallo, che c’è a Borgo Hermada.
2 – Eloisa
Questa notte ho sognato Dario.
Prima c’era Eloisa – la giovane figlia – che mi mostrava nella carrozzina il suo bambino piccolo, pacioso e sorridente, di pressappoco un anno. Capelli castano scuri, visetto tondo paffuto, carnagione chiara, a me pareva proprio di vedere Dario: “Somiglia tutto a lui”.
“Davvero?” ha fatto Eloisa tutta contenta, e se lo guardava e riguardava: “Tu dici?”
Poi eravamo Dario ed io sulla circonvallazione di notte e camminavamo camminavamo come nei tempi giovanili andati. Però era adesso, non era allora: lui era morto ed io quello di ora, ma nel fisico eravamo trenta o quarantenni nel pieno delle forze e camminavamo camminavamo come allora nella notte.
Stavamo sul lato esterno della circonvallazione – sul curvone Damiani – provenienti dallo stadio verso piazza Quadrata, a due passi proprio, in linea d’aria, da casa sua. O meglio, da quella che era stata casa sua in via Garibaldi 5 da appena arrivato a Latina nel 1967 e fino, credo, a metà degli anni Ottanta.
Stavamo là sul curvone, memori della luna tutta piena sulla nostra sinistra – immensa immensa e bassa bassa sul tetto delle poste e i terrazzi di piazza Quadrata, che avevamo visto poco prima, partendo da piazza del Popolo – rossogiallastra, plenilunio sereno che pervadeva l’infinità del cielo e la città notturna, i pini, lo stadio, le cicale mute dormienti, la silente circonvallazione.
E Dario era sereno tranquillo – mentre camminavamo camminavamo – lirico, atarassito, pacificato direi, lungimirantemente cosmicizzato come mai era stato, ma come se lo fosse sempre stato.
“Bella notte di luna senza tempo” ha detto camminando camminando verso piazza Quadrata, ed io pensavo: “Che gli è successo? Queste cose qui non le ha mai dette. E di chi è poi il verso? Io lo conosco, l’ho sentito, lo so bene di chi è, ma non me lo ricordo”.
E invece no, non era di nessuno, mi confondevo a basta con “Dolce e chiara è la notte e senza vento” della Sera del dì di festa, l’esatto opposto del sentimento generale suo raggiunto, oramai.
Di colpo però non eravamo più sulla circonvallazione, ma in una stanza grande interna di casa sua a via Garibaldi 5 – al quinto piano, dove avevano traslocato dopo i primi due anni al secondo – quelle che davano sul cortile e i giardini dei palazzi Incis.
Nella stanza su un letto grande – o un lettino, o una culla, una poltrona, un divano – c’era questo figlietto paffuto pacioso di Eloisa che sorrideva, e Dario s’è chinato a guardarlo bene: “Ma tu davvero dici che mi somigli? A me non pare proprio” e sorrideva di scherno quasi, verso di me, ma con affetto comunque verso il bambino. “Chissà a chi somiglia…”
“Come no? È tale e quale a te!”
“Mah?! Forse gli occhi…”
“Solo gli occhi? Tutto quanto, Dariù” e sorridevamo sia noi che il bambino.
Adesso però, di nuovo all’improvviso, stavo in un’altra stanza di quelle davanti, sulla strada – nel salone – e c’erano il padre di Dario in poltrona che, riponendo con una mano un libro sul tavolo di fianco, s’alzava per venirmi incontro e la madre radiosa che arrivava dalla cucina; belli ed in forze come allora, come neanche morti da più di vent’anni.
“Come sta?”, m’hanno chiesto contenti che lo avessi visto: “Davvero sta bene, sta tranquillo? E il bambino sul serio gli somiglia?”
“Sì”.
Poi non ero neanche più lì, ma al telefono con Eloisa e piangendo piangendo le dicevo nel sogno che avevo sognato suo padre, e che c’era pure però, insieme a noi, il bambino felice che un giorno lei farà.
Riposa in pace, Dariù. Ti sia lieve la terra, e sempre splendida immensa la luna.
15-29 agosto 2015
Antonio Pennacchi, il Fatto Quotidiano 30/8/2015