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 2015  agosto 30 Domenica calendario

“MI MANCA BIGAS LUNA, ALMODÓVAR ERA UN AMICO, POI È DIVENTATO UN MOSTRO”

[Intervista a Francesca Neri] –
La vita, l’amore e le vacche: “Se guarda i super 8 della mia infanzia, ci sono solo loro. Ogni tanto viene inquadrato il mio naso o un braccio di mio fratello. Per il resto, vacche. La Vacca Rendena, la Bruno Alpina, la Tiroler. Mio padre le classificava e tra una stalla e l’altra non mancava di erudirci sui tranelli dell’alpeggio: ‘Non pestate la boazza’. I lasciti delle mucche erano generosi, l’odore indimenticabile, la distrazione fatale”. Pomeriggio estivo. Finestre chiuse. Clima asettico. Condizionatori in battaglia. Freddo.
Della città natale, Trento, a casa di Francesca Neri è rimasta soltanto la temperatura. Passano un cane, un’amica, il figlio Rocco che apre con le sue chiavi, già grande. Lei fuma. Dei 51 anni portati con solare indifferenza, Neri ne ha trascorsi quasi 30 a Roma. Ha ereditato l’accento: “Sò arrivata qui che ero Heidi”, affinato l’ironia: “Problemi a farmi prendere sul serio dovuti alla bellezza ne ho avuti sempre e li ho ancora, pure ora che sò vecchia”, interpretato più di 30 film. Luigi Comencini, Ridley Scott, Verdone, Avati, Almodòvar, Saura e oggi, con la La nostra quarantena, nei cinema da ottobre per Istituto Luce, Peter Marcias da Oristano: “Un documentarista veramente bravo, che sull’Odissea della nave Kenza e sullo sciopero di alcuni marinai marocchini prigionieri nel porto di Cagliari, ha fatto una straordinaria sintesi di ricerca e ricostruzione interrogandosi su cosa sia davvero oggi il mondo del lavoro. Ho partecipato all’operazione per lui. Quest’anno ho recitato anche per altri due piccoli film italiani. Girati in pochissime settimane, pieni di idee e prodotti con due lire.
A che servono se li vedranno in pochi?
Prima di tutto al mio divertimento. Poi a dare a gente che lo merita, nel tempo, un’occasione più grande. Il talento mi affascina. Va sostenuto.
Due lire diceva.
Come forse all’inizio è anche giusto che sia. Ho saputo che Francesco Munzi, il regista di Anime Nere, tra una pausa e l’altra ha girato per 13 settimane. Si fermava. Ripartiva. Dubitava. Ricominciava. Il film è interessante, per carità. C’è del buono. Ha vinto molti premi. Però non è Gran Torino di Clint Eastwood, non è Crash, non è Locke e non è neanche Un amore di Tavarelli. Film girati in fretta, dalle enormi qualità. Non si possono supervalutare gli autori. Né si può dire, come ho sentito dire per anni: “Nel cinema italiano la scrittura latita”. Se latitava, vuol dire che c’era qualcuno, il produttore, che non faceva il proprio mestiere.
Nel cinema italiano manca la misura?
Non so dire esattamente cosa manchi e non so rispondere alla domanda, so però che sono un po’ stanca di accontentarmi: da spettatrice e da attrice.
Il film di Sydney Sibilia, quello di Edoardo Leo, le molte filiazioni di un genere tornato di gran moda. La commedia, non la accontenta?
Sono felice che la commedia diverta, faccia lavorare volti nuovi e porti gente in sala, ma onestamente più che una soluzione per il futuro mi sembra un contentino. Non è una strada, è un sentiero. Non mi interessa. Io il futuro del cinema italiano non lo vedo. Men che mai nelle commedie contemporanee. Un movimento sterile. Si prende un attore, gli si fanno fare otto film di seguito e poi lo si sostituisce con un altro.
Parla da attrice o da produttrice?
Da attrice e da produttrice. Ecco cosa manca, la risposta mi è venuta. Manca un nucleo di persone che cresca, si confronti, superi l’individualismo e porti veramente da qualche parte come accadde all’inizio degli Anni 80 con il gruppo Gaumont. Era una scuola di cinema alternativa al Centro Sperimentale. Diede vita ad alcuni progetti di spessore. Ne Il Grande Blek, una delle mie prime interpretazioni, c’erano tanti giovani usciti da quella squadra.
Nomi.
Il grande Blek fu il primo film di Giuseppe Piccioni come regista, il primo di Domenico Procacci come produttore, il primo di Sergio Rubini come attore. I provini li fecero al Centro Sperimentale. I corsi erano aperti, a ognuno di noi, prima di lasciarci andare verso le nostre inclinazioni, veniva data un’infarinatura di montaggio, sceneggiatura e regia. Avevo compagni di corso come Iaia Forte, Roberto De Francesco, Jacopo Quadri, e Paolo Virzì con cui il secondo anno dividemmo anche un appartamento.
“Il cinema italiano è stato una grande industria” dicono i nostalgici.
I tempi in cui si giravano 300 film all’anno non torneranno più. Ed è un peccato perché il cinema è un affare anche economico. È sparito anche il Cinepanettone. Nessuno glielo ha riconosciuto fino in fondo, ma i Vanzina avevano creato un modello perfetto. Vacanze di Natale, Amarsi un po’, Sapore di Mare. Cosa c’era di così diverso dalle commedie di oggi? Glielo dico io: niente. Solo che queste sono commedie d’autore, quelle erano vanzinate. Resto con le mie riserve su definizioni nette e facili entusiasmi.
Lei e suo marito Claudio Amendola avete prodotto due film. “Melissa P.” di Luca Guadagnino e “Riprendimi” di Anna Negri.
Mi sono fermata, ci siamo fermati. Non mi reputo una produttrice, tra i due, quello che somiglia di più a quel che volevo fare proprio in quel modo è Riprendimi.
Per i lettori di Ciak, “Melissa P.” è il peggior film del 2005.
Giudizio ingeneroso. Nessuno voleva darci i soldi per realizzarlo e così li trovammo dalla Sony, in America, grazie alla coproduzione spagnola. Luca Guadagnino è un vero artista e nel film, se cerchi, c’è la sua cifra, ma è chiaro che Melissa P. è un compromesso tra l’idea originaria, il romanzo e l’impronta degli americani che l’hanno fatto diventare un’altra cosa ancora.
“Riprendimi” invece?
Costò 455 mila euro, c’era Alba Rohrwacher, al suo primo vero film da protagonista, Stefano Fresi senza il quale oggi sembra non si possa girare un fotogramma, Valentina Lodovini. Anna Negri è una persona complessa, ma ha una bellissima mano registica. In Riprendimi c’era un’idea di cinema molto precisa.
Agli inizi della sua carriera ne aveva una anche lei?
Neanche un po’. All’oratorio di Trento vedevamo Trinità. Bud Spencer e Terence Hill. La saga di Maciste. I peplum. Niente cineforum seriosi, niente Bergman.
A Roma?
Mi sentivo un’adolescente incompresa. Non sapevo neanche che avrei fatto l’attrice. L’ipotesi era vaga. Venivo da una famiglia tradizionale del Nord, il cinema non era un’opzione. A Roma, per far contenti i miei, mi iscrissi alla Facoltà di Giurisprudenza, per un anno. Poi prima di mollare definitivamente l’Università ed essere presa al Centro con tanto di borsa di studio, provai con Lettere. Al Centro, mi promosse Lino Capolicchio. Con un amico sardo che faceva il cameriere, presentai La gatta sul tetto che scotta. Da sola, un monologo tratto da Anna Frank. Parlavo un trentino stretto, si immagini cosa poteva essere. Aprivo bocca ed ero cantilenante, le o aperte, quelle chiuse, un disastro. Alle lezioni di dizione ero la peggiore. Mi hanno massacrato.
Uno dei primi a darle un’occasione fu Luigi Comencini in “Buon Natale… buon anno”.
Una parte minuscola, ma importante, con Virna Lisi, su un autobus. Mentre Monicelli era soprattutto cattivo, Comencini conosceva la sottigliezza: prima ti faceva aprire il cuore alla speranza, poi ti dava la mazzata. Quanto abbiamo pianto davanti a Incompreso e quanto era bello e innovativo il suo Pinocchio.
Di lì a poco, nel 1990, venne scelta da Bigas Luna per “Le età di Lulù”.
Ero a Cannes con Giuseppe Piccioni e Domenico Procacci, il mio fidanzato di allora. Sulla Croisette incontrammo un amico, Enzo Porcelli. Ci parlò di un film in preparazione tratto da un libro che in Spagna aveva avuto un successo strepitoso e del suo produttore Andres Vicente Gòmez, il Cecchi Gori di Madrid, alla ricerca di un’attrice dopo la rinuncia di Angela Molina: “Ti va di incontrarlo?”. Accettai. Gòmez rilanciò: “Se ti fermi stanotte, domani faccio venire il regista”. Bigas Luna, adorabile, lo conobbi così, dopo un’indimenticabile attesa in Costa Azzurra stretta nell’unico letto disponibile nel caos del Festival tra Piccioni e Procacci.
Il film creò scandalo.
Io e Domenico leggemmo il copione e rimanemmo sconvolti. Qualunque altro fidanzato mi avrebbe intimato: “Non lo fai”, lui avrebbe voluto dire la stessa cosa, ma faceva quel mestiere, sapeva che l’occasione era importante, strozzò le gelosie e si trattenne. Prima del provino, chiesi tre giorni per ragionare. Poi lo affrontai con incoscienza. Mi presero. “La Neri si spoglia”. A Trento il riverbero fu notevole.
A Procacci è grata per il consiglio o lo maledice ancora?
Gli sono grata. A Le Età di Lulù devo tutto e con Bigas Luna, uno che ci sapeva fare, uno che aveva lanciato Javier Bardem, un simpatico nato, avrei lavorato ancora volentieri.
Perché deve tutto a “Le età di Lulù”?
Massimo Troisi mi scelse per Pensavo fosse amore e invece era un calesse proprio dopo aver visto Le età di Lulù. Rischiavo di scivolare nel clichè e ne uscii in un amen.
Con Verdone recitò in “Al Lupo al Lupo”.
Giravamo al mare, dentro l’acqua, alla tenuta dell’Uccellina. Carlo, uomo fantastico per dividere una cena, ma apprensivo quando non paranoico di fronte alle responsabilità del set, ci aveva tormentato per settimane: “Attenti alle tracine sotto la sabbia”. Una rottura di coglioni che non so dirle, fitta di presagi: “È pieno, è pieno” e di raccomandazioni: “Se vi pungono fateci subito la pipì sopra”. Finalmente giriamo. Ciak, azione e si sente un urlo sordo. Era Carlo. Urlava. Era stato punto lui. La tracina fa un male cane. Parte della troupe, piegata, provava ad aiutarlo senza smettere di ridere.
Lei ha conosciuto bene sia Troisi sia Francesco Nuti.
Venivano entrambi da famiglie semplici, ma erano diversi. Francesco, a differenza di Massimo, è sempre stato molto fragile. Meno ironico, meno consapevole, meno comico. Lo incontrai una prima volta e non mi stette simpatico. Poi lo conobbi meglio e capii che i suoi comportamenti erano soltanto reazioni alla fama, all’aspettativa, al successo. Nuti era sensibile e non lo reggeva. Ho visto tanta gente perdersi. Chi ha scelto di buttarsi su alcool, chi su coca e notti in bianco, ma alla fine, se per sostenere il successo non hai preparazione o struttura mentale, soccombi.
Neanche lei – ha detto più volte – si è saputa godere il successo iniziale. Perché?
Perché avevo troppi cazzi miei da risolvere. Oggi sono matura, mi sento giovane, dico quello che mi pare e capisco tante cose che ieri mi sfuggivano. Ma ieri era ieri, io sono rimasta sempre io e se tornassi indietro, probabilmente, rifarei le stesse cose. Non cambierebbe niente. Per risolvere i miei casini è servito tempo. Incontravo tanta gente, giravo il mondo e nonostante questo, passavo il tempo al telefono a piangere, a correre di qua e di là tra una storia d’amore e l’altra. Non ha idea di quante volte il cinema mi sia servito per scappare dalla realtà. Scappavo. Scappavo sempre. Nel 2002, pur di lasciare l’Italia, andai a recitare con Arnold Schwarzenegger in Danni Collaterali. Mi sottoposi a otto provini rinunciando a un’opera prima italiana che mi sarebbe piaciuto immensamente interpretare. Ebbe un esito pazzesco quell’opera e io ero dall’altra parte del mondo.
Il titolo?
Non glielo dico neanche se si ammazza. Ieri mi dispiacevo, oggi riesco a riderne.
“Ho fatto i conti con la paura dell’abbandono” ha detto.
I conti? Quelli li ho pagati all’analista per 10 anni di lavoro mostruoso. Tra paure e sensi di colpa il lettino l’ho occupato militarmente.
È vero che si trovò in difficoltà psicanalitiche con Almodóvar in “Carne tremula”?
Psicanalitiche non so, però fu dura. Pedro mi scelse e mi fece trasferire in Spagna tre mesi prima delle riprese per studiare lo spagnolo. I tre mesi più belli della mia vita. Mi fece stare benissimo. Sei un’attrice, stai per girare con Almodóvar, hai nel regista il migliore amico del mondo e in mezzo alla movida di quegli anni, al tavolino di un bar, ti confidi con lui, ti apri e racconti chi sei.
“Carne trèmula” le valse Il nastro d’Argento. Sicura di aver fatto male ad aprirsi con Almodóvar?
Un premio è un premio, la vita è un’altra cosa. Pedro è un genio intelligente e sensibile. Conosce il meccanismo della manipolazione, sa essere duro, può farti molto male. Lui pretende che gli attori si diano completamente e conoscerli a fondo per usarne le fragilità al momento adatto fa parte di un piano che Almodóvar considera necessario al film. Ci sono tanti registi così, soprattutto in Francia. Io per fortuna ne ho incontrati pochi.
Con Almodóvar litigò?
Pedro era una belva. Era agguerrito, sostituì l’attore protagonista dopo due settimane di riprese. Fermò tutto, comunicò a lui e a noi la sua scelta e poi ricominciò. Con me Almodóvar cambiò atteggiamento all’improvviso, durante le riprese. Era stato il mio primo dolce confidente ed era diventato aggressivo. Non lo riconoscevo più. Ero in un momento personale delicato, finiva con un fidanzato, c’era già Claudio Amendola nella mia vita, ero confusa e vissi molto male il mutamento di rapporti. Mi sentii abbandonata. Tradita. Da allora faccio fatica a fidarmi, ad aprirmi, a raccontarmi. Anche nelle interviste. Mi rileggo e non mi ritrovo. A margine di un lungo discorso sul cinema infilano una domanda sulle mie labbra e poi sul giornale il titolo è regolarmente su quello. Ormai ho imparato.
Avere rimpianti nel suo mestiere ha senso?
Solo per le persone di valore come Almodóvar perse di vista da un giorno all’altro. Professionalmente ci incontrammo al momento giusto, umanamente no. Ogni tanto penso di scrivergli. Oggi sono risolta, mi piacerebbe raccontargli come sono diventata, ma forse lo annoierei e non gliene fregherebbe niente. A lui piace il dramma, Pedro senza dramma non sa stare.
Malcom Pagan, il Fatto Quotidiano 30/8/2015