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 2015  agosto 30 Domenica calendario

IL CALCIO VA IN TRINCEA. INTERVENNE D’ANNUNZIO, IL CAMPIONATO NON FINI’ PIU’

IL CALCIO VA IN TRINCEA. INTERVENNE D’ANNUNZIO, IL CAMPIONATO NON FINI’ PIU’ –
La sera del 2 maggio 1915, rientrati da Torino, i giocatori del Genoa Cricket and Football Club erano a pezzi. L’allenatore William Garbutt provò a consolarli, disse loro che nulla era perduto, che potevano ancora farcela a vincere lo scudetto, non dovevano abbattersi per una sconfitta. Il fatto è che quella che avevano appena subito non era stata una sconfitta normale, ma un’autentica batosta: 6-1 dal Torino. E quel risultato, in qualche modo, aveva rimesso in discussione le sorti del campionato: se il Genoa era stato fino a quel momento il grande favorito, ora tra gli esperti serpeggiava qualche dubbio. Mancavano ancora tre partite al termine del girone nazionale, e poi ci sarebbe stata la finalissima contro la squadra vincente del raggruppamento meridionale. La classifica era la seguente: Torino punti 4, Genoa e Internazionale 3, Milan 2. Il Genoa, per ribaltare la situazione, aveva a disposizione le sfide contro il Milan (in casa il 9 maggio), contro l’Inter (in trasferta il 16 maggio) e l’ultima contro il Torino (in casa il 23 maggio). William Garbutt ricordò ai suoi ragazzi il calendario, cercò di tenerli su di morale e diede loro appuntamento al pomeriggio successivo per il consueto allenamento.

IL PATTO SEGRETO A Genova, come nel resto d’Italia, in quei giorni il calcio non era l’argomento principale dei discorsi. Se ne discuteva, certo, perché era un fenomeno popolare e ci si accapigliava davanti a un bicchiere di vino, ma l’attenzione della gente era rivolta a qualcosa di più grande: la guerra. Il Paese era in fibrillazione, in tutte le città si manifestava: sulle strade e nelle piazze si contavano i morti e i feriti. L’Italia si era divisa: da una parte gli interventisti, cioè coloro che volevano che il Paese entrasse in guerra contro l’Austria e la Germania; e dall’altra i pacifisti, cioè coloro che volevano che il Paese restasse neutrale. Fu una primavera di tumulti e di incertezza: nessuno sapeva quali fossero i piani del governo e del Re Vittorio Emanuele III. La verità era che l’Italia, il 25 aprile, aveva firmato il Patto di Londra, rompendo così l’alleanza con l’Austria e la Germania e stringendo quella con Inghilterra, Francia e Russia. Secondo questo patto il nostro Paese avrebbe dovuto dichiarare guerra entro la fine di maggio. Ma soltanto il Re, il capo del governo Salandra e il ministro degli Esteri Sonnino conoscevano questa tempistica: il popolo la ignorava e continuava a darsi battaglia, interventisti contro pacifisti, come se nulla fosse.
PAROLE INCENDIARIE All’oscuro dei giochi diplomatici italiani, ma fortemente convinto della necessità di entrare in guerra, c’era Gabriele D’Annunzio, il Vate, che vedeva nell’intervento armato una possibilità di riscatto del popolo. Contrario alla guerra era, invece, Giovanni Giolitti, il politico che aveva dominato la scena nell’ultimo ventennio. Ma la sua era una posizione di minoranza e l’Italia se ne rese conto la mattina del 5 maggio. Quel giorno i giocatori del Genoa non si allenarono, la città era paralizzata: a Quarto, a pochi chilometri di distanza, proprio nel luogo da dove Garibaldi partì con i suoi Mille per unificare il Paese, sarebbe stato inaugurato un monumento dedicato a quell’impresa. A tenere il discorso davanti all’immensa folla arrivata da ogni parte d’Italia, Gabriele D’Annunzio. E, più che un discorso, quella fu la vera dichiarazione di guerra: il Vate incendiò gli animi della gente con la retorica che padroneggiava da consumato attore, convinse anche i più scettici della necessità dell’intervento armato e concluse: «Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati». Tra gli spettatori, quel giorno, c’erano anche alcuni giocatori del Genoa. Le parole di D’Annunzio avevano colpito nel segno: molti corsero a iscriversi alle liste dei volontari. William Garbutt faticava a tenere i giocatori concentrati sull’obiettivo: negli spogliatoi non si parlava d’altro che dell’imminente intervento bellico. Il 9 maggio il Genoa battè il Milan e tornò in testa alla classifica. Il presidente della Federcalcio Carlo Montù contattò i dirigenti delle quattro squadre impegnate nel girone e propose di anticipare l’ultima giornata. Garbutt si oppose. Così il 16 maggio i rossoblù giocarono e batterono l’Inter a Milano, sul campo di via Goldoni, mentre il Torino pareggiò in casa contro il Milan. A quel punto la classifica era la seguente: Genoa 7, Inter e Torino 5, Milan 3. Ai ragazzi di Garbutt bastava un pareggio contro il Torino il 23 maggio.
SENZA FINE Ma la storia correva più veloce dei calciatori. Giovedì 20 maggio la Camera approvò l’intervento bellico e sostenne il governo: il popolo era mobilitato, i soldati si organizzarono per raggiungere i rispettivi reggimenti. Domenica 23 maggio, mentre l’Italia dichiarava guerra all’Austria e si caricavano i proiettili nei cannoni, Genoa, Torino, Milan e Inter si preparavano a giocare le ultime partite. Entrarono in campo alle 15,30 e gli arbitri, quando furono di fronte alle tribune, estrassero un foglio dalla tasca dei pantaloni e lessero il telegramma diffuso dalla Federcalcio: «In seguito mobilitazione per criterio opportunità sospendesi ogni gara». Quel giorno non si giocò, e nemmeno nei giorni successivi. Il campionato non si concluse mai e soltanto alla fine della Grande Guerra lo scudetto venne assegnato al Genoa. Ma nessuno festeggiò, perché non c’era proprio nulla da festeggiare: gran parte dei protagonisti di quel campionato era morta sui campi di battaglia.