Maurizio Assalto, La Stampa 30/8/2015, 30 agosto 2015
IL BORGES “INGRASSATO” CHE PIACEREBBE A BORGES
C’è qualcosa che stride nella vicenda che da alcune settimane a Buenos Aires coinvolge l’eredità letteraria di Jorge Luis Borges. Un giovane scrittore argentino, Pablo Katchadjian, ha riscritto uno dei più noti racconti del «bibliotecario cieco», L’Aleph, aggiungendo 5.600 parole alle circa 4.000 del testo originale. In altri termini, lo ha «ingrassato». E infatti El Aleph engordado è il titolo che ha dato alla sua opera, metà provocazione e metà gioco sperimentale, pubblicata nel 2009 in appena 300 esemplari da una casa editrice underground. Ma al gioco non è stata Maria Kodama, la vedova-vestale dello scrittore morto 29 anni fa. La causa da lei intentata fin dal 2011 è arrivata all’inizio di questa estate alla stretta finale, con la formalizzazione dell’accusa: violazione della proprietà intellettuale. Se verrà giudicato colpevole, Katchadjian rischia fino a sei anni di carcere. Adesso la palla è passata alla commissione di esperti incaricata dal tribunale di stabilire se ci sia stata o meno violazione della legge.
In effetti, a considerare la vicenda da un punto di vista borgesiano, l’operazione compiuta da Katchadjian è quanto di più fedele si possa concepire allo spirito del presunto plagiato. Perché non soltanto Borges faceva mostra di avere tanto poco a cuore la proprietà intellettuale da spiegare «a chi dovesse leggere», nell’avvertenza posta in apertura dei Poemas 1923-1958, che «ordinaria e fortuita è la circostanza che tu sia il lettore di questi esercizi, e che io ne sia l’estensore»; di più, egli stesso, con il suo gusto per le interpolazioni, gli apocrifi, le false citazioni sapientemente congegnate, aveva creato il tipo umano di cui Katchadjian si può considerare una variante, e che lo ha probabilmente ispirato. Si tratta, come ben sanno i lettori di Borges, di Pierre Menard, il romanziere francese (di Nîmes) inventato di sana pianta, con tanto di puntigliosa bibliografia, a cui è dedicato uno dei racconti di Finzioni. Questo Menard si era segnalato per avere ri-scritto un paio di capitoli del Don Chisciotte: non «un altro Chisciotte, ma “il” Chisciotte». Il suo proposito paradossale, specifica Borges, non era di copiare, bensì di «produrre alcune pagine che coincidessero – parola per parola e riga per riga – co quelle di Miguel de Cervantes». Ma di giungere a questo risultato attraverso le proprie esperienze di Pierre Menard e non rivivendo quelle dell’illustre predecessore. Perciò l’ipotesi del plagio è fuori discussione: pur essendo esteriormente identiche, le due versioni differiscono intimamente, perché le stesse parole hanno un suono diverso alle orecchie di due autori separati da tre secoli.
Il povero ingrassatore dell’Aleph deve augurarsi che i suoi giudici si ricordino di Pierre Menard.
Certo, Katchadjian non si è limitato a ri-produrre il testo originale: vi ha aggiunto del suo. Ma questo basta a parlare di «dolo e adulterazione», come fanno i legali della poco borgesiana vedova di Borges?
Nella sua visione contingenziale e combinatoria della letteratura, l’autore della Biblioteca di Babele sapeva – l’ha espresso nel racconto L’immortale – che «dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, l’impossibile è non comporre, almeno una volta, l’Odissea». E il Chisciotte, e naturalmente L’Aleph. Combinando e ricombinando i 25 segni ortografici è possibile ottenere una biblioteca tendenzialmente infinita, i cui volumi per la stragrande maggioranza non conterranno che qualche parola di senso compiuto in uno qualsiasi degli idiomi conosciuti, ma tra i quali, nel rapporto di uno su miliardi di miliardi, si troveranno anche tutti i libri scritti finora e tutti quelli che si scriveranno. Anche L’Aleph originale, dunque, e anche quello «ingrassato». E anche (nel reparto periodici?) questo articolo che tratta di questa vicenda così squisitamente borgesiana.
Maurizio Assalto, La Stampa 30/8/2015