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 2015  agosto 30 Domenica calendario

VOLEVO FARE LO SCRITTORE PER ANDARE ALL’OVEST

[Ingo Schulze] –
All’età di tredici anni Ingo Schulze sapeva già di voler fare lo scrittore. O meglio: di voler diventare famoso nel minor tempo possibile. Così la Ddr gli avrebbe risparmiato il servizio militare e lo avrebbe mandato in Occidente: «In virtù del mio eroismo mi avrebbero fatto dormire solo negli alberghi migliori». Inoltre, alla fine degli Anni Settanta il regime di Honecker aveva cacciato il grande cantautore dissidente Wolf Biermann, suscitando un moto di protesta in tutto il Paese. «Il suo nome non mi diceva assolutamente nulla. Però capii che doveva essere molto famoso e importante, perché uscì una miriade di articoli di intellettuali di regime che condannavano le sue canzoni». Schulze trovò «piuttosto assurda questa reazione, perché presupponeva che i lettori della Germania Est avessero visto le trasmissioni delle tv occidentali che parlavano di Biermann». E la tv della Germania Ovest era vietata, al di là del Muro. Il giovane Schulze ne trasse una seconda lezione. Valeva la pena, eccome, di fare lo scrittore. Perché «una poesia può far vacillare uno Stato».
Un piano fallito
La scrittura, scartato il resto, gli sembrava la via più rapida per raggiungere il suo obiettivo. «Per tutte le altre opzioni era troppo tardi. Non avevo un talento particolare per il calcio, né per la pittura o per la musica, per non parlare delle scienze. Invece ero bravo nell’inventarmi storie. E gli scrittori godevano del massimo rispetto, a casa mia. Non che ne conoscessimo personalmente, io e mia madre. Ma E.T.A. Hoffmann e Thomas Mann in qualche modo erano parte della famiglia, insieme con Bach e Albert Schweitzer».
Il piano, per i successivi vent’anni, fallì. Fatta eccezione per due poesie pubblicate da adolescente, un viaggio a Schwerin al «Seminario centrale di poesia della Gioventù socialista» e qualche racconto scritto durante il servizio militare, Schulze si dedicò ad altro. Ma se gli si chiede perché abbia pubblicato la prima raccolta di racconti, 33 attimi di felicità (tradotta in Italia da Feltrinelli) così tardi, a 33 anni, lo scrittore di Dresda si stringe nelle spalle: «Niente, se paragonato con Theodor Fontane». Il genio del realismo tedesco scrisse il suo primo romanzo a 57 anni. E, come l’autore di Effi Briest, Schulze fece molto altro, prima di cominciare a scrivere. Il giornalista, il direttore artistico di un teatro, persino l’imprenditore. Approdò alla scrittura tardi, quasi per caso. Quasi per forza.
Nell’anno più fatidico per la nuova Germania, il 1989, Schulze faceva il direttore artistico di un teatro ad Altenburg (una cittadina a Sud di Lipsia dove ambientò anni dopo il suo primo romanzo, Semplici storie). Ma nell’autunno della caduta del Muro di Berlino «niente era noioso come il teatro, niente era interessante come la televisione, la radio, i giornali». Schulze fondò un quotidiano: «Volevamo accompagnare il processo di democratizzazione». Contrariamente a molti suoi coetanei, aveva sempre scelto di rimanere nella Ddr: «Non me n’ero andato perché avevo sempre avuto la sensazione che ci fossero degli spazi vuoti, inesplorati. E poi c’era quel motivo che ci ripetevamo da quando era arrivato Gorbaciov. Per “l’ora X” bisogna pure che qualcuno resti».
«Meglio taxista»
Schulze restò. Ma fondare un giornale ad Altenburg si rivelò un’impresa, e lui si improvvisò imprenditore: «Siccome non ci finanziava nessun Neues Forum (una delle organizzazioni anti regime attive nell’89, ndr) e non volevamo lasciare tutto in mano a un solo editore, divenni coeditore». Negli anni successivi le cose divennero sempre più complicate e l’impresa si rivelò titanica e logorante: «Sognavo di diventare disoccupato. Non sopportavo la pressione, l’ansia di avere la responsabilità per altre 15-20 persone». Non vedeva l’ora di liberarsi del giornale. «Il mio piano divenne quello di tentare seriamente la scrittura, darle un’ultima possibilità. Volevo tornare a Berlino: scrivere e fare il tassista mi sembrava più allettante che rimanere infilato nella ruota da criceto in cui mi agitavo da anni».
Per un caso fortuito, arrivò una proposta decisiva. Un imprenditore «su cui non mi facevo illusioni» gli propose di andare a San Pietroburgo per fondare il primo giornale free press. «Gli dissi di sì all’utopica condizione che mi desse 7000 marchi al mese (l’equivalente, all’epoca, di 7 milioni di lire, circa 3.500 euro, ndr), lui acconsentì e io partii». Era il 1992, l’Unione Sovietica era in disgregazione e in piena transizione verso un capitalismo oligarchico e selvaggio. L’ex Leningrado pullulava di personaggi incredibili, feroci, disperati, spaesati e poetici, raccontati poi da Schulze in 33 attimi di felicità: impressioni magnifiche di un uomo ancora troppo coinvolto negli eventi dell’89 tedesco per poterne scrivere. Schulze si dedicò, invece, a storie russe con richiami evidenti ai suoi maestri, Gogol e Puskin. Soltanto successivamente riuscì a dedicarsi pienamente alla Wende, alla riunificazione tedesca e alla caduta del Muro, iniettando romanzi e racconti di riferimenti e aneddoti autobiografici.
Nella città di Dostoevskij
Oggi lo scrittore sassone spiega che per il suo esordio scelse una città straniera, San Pietroburgo, «perché le contraddizioni che si vedevano a Berlino erano una frazione di quelle che si vivevano in Russia, era tutto amplificato». E ogni metro quadro della città delle notti bianche era anche intriso di atmosfera letteraria: «Si poteva ancora andare con Raskolnikov dalla verduraia o andare in pellegrinaggio dalla casa di Aleksandr Blok a quella di Iosif Brodskij». San Pietroburgo era un luogo in cui diverse epoche sembravano costantemente accavallarsi nel presente: «I tempi di Puskin e Dostoevskij, le avanguardie di inizio ’900, la rivoluzione d’ottobre e le persecuzioni staliniane». Quando arrivò Schulze, nel 1992, «un brutale, imprevedibile, isterico capitalismo stava recitando la sua ouverture». Le contraddizioni finirono in una raccolta di racconti che festeggia quest’anno il ventennale dalla pubblicazione. Ma sembra scritta ieri.
Tonia Mastrobuoni, La Stampa 30/8/2015