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 2015  agosto 30 Domenica calendario

COME È NORMALE PERDERSI NELLA NOTTE DI ISTANBUL

A Istanbul sono andato due volte senza vederla mai. Ho visto due hotel e, a distanza di vent’anni, Sulukule. Prima di arrivarci dovrei spiegare brevemente come e perché è stato possibile. Entrambe le volte ci sono finito a causa di una convention aziendale: la prima di macchine agricole, la seconda di cellulari. Sovrappongo i due avvenimenti, lontani ma simili. Fuori luccicava il Bosforo, all’interno, la prima volta, i manager furono indotti a imitare l’haka dei maori urlando: «Siamo i guerrieri del profitto». La seconda, un mental coach del Wisconsin ordinò di sedersi accanto a uno sconosciuto e condividere il nostro più grosso problema.
Mi toccò un cinese che disse: «Agantoktumadotà». Allo scadere, prima che dovessi inventarmi un guaio, capii che non riusciva a parlare con la figlia («I can’t talk to my daughter») e immaginai che manco lei lo comprendesse. Inevitabile che l’ultima sera, in entrambe le circostanze, uomini stipati di parole, numeri e testosterone, scivolassero fuori dal recinto alberghiero in cerca d’avventura. La seconda volta andai, solo, a Sulukule, dove ero stato condotto nell’altra, ormai remota occasione. Era irriconoscibile, potevo soltanto ricordarla.
Vent’anni prima un gruppo di manager aveva pregato la guida locale e poliglotta: «Portaci a vedere qualche cosa di diverso, speciale». Sono giri di parole sintetizzabili con una soltanto: «Sesso». La guida contò i partecipanti alla spedizione notturna, disse di prendere tutte le monete che avevamo e ordinò tre taxi. Due arrivarono subito e partirono senza aspettare il terzo. Eravamo rimasti ad attenderlo io e Giuseppeverdi. Lo chiamavano così per l’incredibile somiglianza: spiccicato al compositore di Parma benché originario di Asti. Stessa zazzera e barba, ma nulla della malinconia attribuitagli dal pennello di Boldini. Aveva molestato la prima hostess al check-in e l’ultima cameriera al tavolo. Non fu una sorpresa, non sapendo dove fossero andati gli altri, sentirlo intimare al tassista: «Prostitution house! We want go to women!». Il conducente si girò, perplesso. La richiesta fu ripetuta invano, quindi ridotta a un gesto che risultò internazionale e provocò un luminoso sorriso di sollievo e una risposta di quattro sillabe: «Su-lu-ku-le!».
A Giuseppeverdi il suono piacque, lo trovò onomatopeico. Lo traduceva come: promessa. Lo ripeté più volte, felice come un bambino con la caramella in bocca. Ci allontanammo dalla città, imboccammo una tangenziale, uscimmo al cartello che ribadiva quel nome, musica per le orecchie. Vidi mura diroccate e neanche per un attimo pensai fossero i resti teodosiani che erano. Mi confortò vedere, felicità del caso, gli altri due taxi a pochi metri dal nostro. Vagavano lenti per le strade dissestate. Agli usci delle catapecchie vecchie zingare si sbracciavano per attirare l’attenzione, facendo segni eloquenti: promessa. Giuseppeverdi era incontenibile: per lui ogni porta era buona, ma la comitiva proseguiva. La guida doveva avere una meta di riferimento. Infatti. Il primo taxi si fermò davanti a una donna con tanto di velo scuro. Fece segni spicciativi, le portiere applaudirono mentre la seguivamo verso scale diroccate, fino a una stanza spoglia che conteneva soltanto una dozzina di sedie disposte in circolo. La guida si addossò al muro e fece cenno di sedere e prendere le monete che avevamo portato. Un attimo dopo apparvero due ragazzine, annunciate come nipoti della zingara. Indossavano costumi da danzatrici del ventre e come tali cercavano di muoversi. Strusciavano gli avventori a turno e a quel punto richiedevano uno spicciolo nella cintura. Tempo due minuti e Giuseppeverdi aveva scatenato l’inflazione estraendo tutte le banconote che aveva e monopolizzando l’attenzione. Tempo altri due e dalla scale sbucò un tizio camuffato da agente, probabilmente imparentato con tutte, intimandoci di sfollare, pena l’arresto.
La guida compiacente partecipò alla sceneggiata, spingendoci fuori come se stessimo scampando a un pericolo. Mi ritrovai con lui nel taxi che, anche stavolta, chiudeva la fila. Procedevamo veloci verso l’hotel dopo il nostro quarto d’ora di brividi. Contai le teste davanti. Ne mancava una, la più zazzeruta. Dai film di guerra ho imparato e a Istanbul messo in pratica, il motto: nessuno va lasciato indietro. Nonostante le rimostranze di guida e autista imposi di tornare a Sulukule. Perlustrammo i vicoli con i fari e in uno trovammo Giuseppeverdi, succinto d’abiti, avvinghiato a una ragazza. Pensai che questo fosse ciò che di Istanbul si dice sempre: qui l’occidente e l’oriente s’incontrano. Sullo sfondo già s’intuivano i gaglioffi che avrebbero spogliato l’europeo del resto. Lo strappammo all’abbraccio e caricammo a forza in auto, partendo a tutto gas. Non ci perdonò mai. Vent’anni dopo Sulukule è un altro mondo. Hanno allontanato i rom, svuotato le case. Di notte non c’è più musica. Né sesso. Molti rimpiangono quel che non hanno conosciuto, ma fin da allora nessuna promessa era stata mantenuta.
Gabriele Romagnoli, la Repubblica 30/8/2015