Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 29/8/2015, 29 agosto 2015
L’INATTESO CHIAMATO ALFREDO. VENEZIA 2015 CELEBRA BINI
Se Bini fosse stato l’anagramma perfetto di Iban e non solo il cognome di Alfredo, il produttore che fece esordire Pasolini in Accattone avrebbe potuto forse evitare di regolare i conti con l’esistenza in un tre stelle al chilometro 107 dell’Aurelia. Bini ci capitò all’alba del 2000 senza un euro in tasca, chiese ospitalità per un paio di notti a Giuseppe Simonelli, il proprietario, un angelo più vero della riproduzione di Sanzio appesa alle pareti e tra l’Hotel Magic e Pescia Romana, mise un chiodo e rimase per dieci anni. Gli ultimi della sua vita ora ripercorsa in un ritratto postumo laico e commovente.
Per conoscere l’arcipelago di Bini, scoprire le rotte che tra una scazzottata e una divergenza lo videro in viaggio con il poeta in sette diverse avventure, difendersi dalla tempesta retorica pronta a soffiare per l’imminente quarantennale dell’Idroscalo e navigare nel rapporto tra chi crea e chi finanzia (“L’arte del cinema è l’arte di trovare i soldi per fare il cinema”, ricorda Bertolucci) ci voleva Simone Isola, romano, produttore (con Gianluca Arcopinto e Istituto Luce) e qui anche regista di uno dei due documentari italiani selezionati da Venezia Classic.
Il film si intitola Alfredo Bini-ospite inatteso e senza intenti programmatici, si rivela per quel che non vorrebbe essere: una storia del cinema italiano del secolo scorso.
Una storia paradigmatica di ascese e cadute in cui al centro, in primo piano, senza che mai si abbia l’impressione del santino, c’è il produttore indipendente e premiato per decine di film arrivato sul set dopo aver frequentato molti altri palcoscenici. L’Albania italiana, da soldato, durante la giovinezza al fronte. La chiesa romana dei Parioli in cui sposò Rosanna Schiaffino. Le alcove da donnaiolo: “Un culo è un culo”.
E poi Bini illuminato talent scout: “Sapeva leggere nelle qualità ancora non espresse delle persone”, dice Bertolucci, Bini il rompicoglioni: “Pasolini voleva a tutti i costi Anna Magnani in Mamma Roma, ero contrario, andai dall’agente dell’attrice e dissi non la pago, se vuole farlo deve scommettere, avrà solo il 50 per cento degli utili’, Bini il rapace che senza azzannare non sa stare: “Non ho scelto in quale direzione andare, sono stato un predatore, per questo ho fatto tante cose”. Bini giovane con il baffo alla Clark Gable, Bini maturo, quasi un Mario Brega più elegante e Bini vecchio, con la barba da Hemingway nei tanti filmati di repertorio così ben scelti da farti quasi dimenticare che il produttore morì a Tarquinia nel 2010.
Per raccontare Bini e un’epoca del nostro cinema tramontata troppo in fretta, Isola ha assemblato i ricordi di chi con il produttore aveva lavorato. Claudia Cardinale, un critico sapiente come Bruno Torri, Enrico Lucherini, Manolo Bolognini (Bini costruì Il bell’Antonio firmato da Mauro contro il parere minaccioso del ministero dello Spettacolo ‘questi film non si fanno’, stendendo poi sulle fondamenta di Brancati un Mastroianni antitetico a quello coevo di Fellini ne La dolce vita), Gianni Bisiach, Piero Tosi. Chi lo ricorda nella sigla cantata di Uccellacci e Uccellini (Bertolucci) e chi a litigare con Fellini sui giornali a colpi di querele per il Satyricon. Bini lo aveva proposto al regista riminese, Fellini aveva nicchiato, Bini lo aveva proposto a Gian Luigi Polidoro e poi serafico, si era visto arrivare in ufficio il maestro: “Alfredino, caro, ho cambiato idea, il film lo faccio con un altro produttore, Grimaldi”. Bini non la prese bene: “Ma che dici? Io sono alla seconda settimana di riprese, mascalzone, io ti ammazzo”, scegliendo poi con la stampa altre tonalità per veicolare l’amarezza per la disfida legale: “Ci rattrista molto che un regista come Fellini si metta in una situazione così spiacevole comportandosi con una leggerezza imprevedibile”.
Era imprevedibile anche il microcosmo scelto da Bini per esprimersi. L’esito di Edipo Re e il premio mancato a Venezia nel ’67 (“Chiarini aveva chiaramente consigliato a Bini e a Pasolini di non andare al Festival con il film perché con Moravia presidente di giuria non avrebbero mai avuto un premio – dice Simone Isola – ma i due si impuntarono” scossero Bini che virò altrove.
Sui film di Ugo Liberatore (Bora Bora), sul dio serpente di Vivarelli, sul cinema minore così lontano dalle passeggiate in via di San Sebastianello ai tempi in cui con Pasolini si discuteva di prospettive lugubri: “Fellini era andato a vedere i giornalieri di Accattone e l’aveva stroncato. Pier Paolo era triste e Bertolucci, il suo aiuto regista, preoccupato ‘vai a trovarlo, quello si ammazza’”.
Bini andò da Pasolini e lo trovò prostrato. Camminarono e con l’oscurità arrivò anche l’ironia: “È quasi buio, che ti ammazzi a fare? Andiamo a mangiare da Otello, ti ammazzi domani, va bene?”. Negli ultimi anni, quelli in cui trovò un giovane amico, quasi un fratello maggiore in Giuseppe Simonelli, l’ospite inatteso di una zona di confine tra Lazio e Toscana, scrisse molto. Nel documentario di Isola, le pagine del diario di Bini sono lette da Valerio Mastandrea. E sono più chiare che scure, più vitali che funerarie.
Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 29/8/2015