Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  agosto 29 Sabato calendario

MAX, PIETÀ DI NOI

Siccome la guerra si fa ai vivi, Massimo D’Alema cominciava quasi a diventarci simpatico. Come Wile Coyote, che passa la vita a tendere trappole in cui poi casca lui e a fabbricare ordigni che poi regolarmente gli esplodono in mano. Le sconfitte, specie quando sono così scientificamente pianificate e pervicacemente perseguite, hanno un loro fascino e fanno tenerezza. Ma a una condizione: che non vengano gabellate per vittorie. L’altroieri, alla festa dell’Unità, il Conte Max ha risposto a Renzi, che al Meeting di Rimini aveva liquidato gli ultimi vent’anni come una lunga e inconcludente rissa fra berlusconiani e antiberlsconiani. E Dio sa quanto quella corbelleria meritasse una stroncatura. Ma se D’Alema difende i presunti successi del centrosinistra, ne dipinge i governi come l’età dell’oro, rivendica di aver “combattuto Berlusconi” e addirittura sventola la bandiera dell’Ulivo, beh, vien quasi voglia di dare ragione a Renzi: perché nessuno – a parte B. – ha combattuto l’Ulivo più di D’Alema. Il quale, onore al merito, nel 1995 aveva inizialmente capito che la sua faccia da ex comunista mai e poi mai avrebbe convinto gli italiani a votare a sinistra, così si era inventato la candidatura di Romano Prodi, su consiglio di Nino Andreatta.
E infatti il Professore fu il solo leader di centrosinistra che riuscì a scaldare i cuori di quella metà abbondante dell’Italia che detestava B.: prima con i Circoli dell’Ulivo nel 1995-’96, poi col plebiscito delle prime primarie del 2005 (4,3 milioni di persone ai gazebo, 3,1 milioni di voti al Prof). E non a caso fu l’unico a sconfiggere B., non una ma due volte, grazie al valore aggiunto “ulivista” che si aggiungeva alla somma dei partiti. Purtroppo, nel 1998, D’Alema gli diede una bella mano a cadere: prima gli tagliò l’erba sotto i piedi con la Bicamerale e l’inciucio con B., poi garantì la copertura a Rifondazione quando quell’altro genio di Bertinotti sfiduciò il governo Prodi, avendo la garanzia che non si sarebbe andati al voto. Infatti Max andò a Palazzo Chigi con un’ammucchiata di trasformisti eletti con B. pronti a intrupparsi con lui al seguito di Cossiga, Mastella e Buttiglione a una condizione: che l’Ulivo fosse dichiarato morto e sepolto. Cosa che D’Alema si affrettò a fare, replicando l’atto di decesso già anticipato un anno prima al castello di Gargonza (località dalla rima evocativa): “Siamo seri, non conosco questa politica fatta dai cittadini e non dai partiti”. E dire che aveva giurato che mai e poi mai sarebbe andato al governo senza passare per le urne.
“Di un nuovo premier si parlerà quando ci saranno le elezioni” (13.12.97). “Io a Palazzo Chigi al posto di Prodi? Veleni messi in giro ad arte. La mia candidatura non è mai esistita” (13.10.98, tre giorni prima di formare il governo). Quello fu il peccato originale che, a valanga, portò l’Italia alla rovina negli ultimi 17 anni: D’Alema considerava il Prof un usurpatore e una bestemmia il fatto che uno senza partiti alle spalle sedesse a Palazzo Chigi al posto suo.
Il Prodi-1 che defunse per un solo voto era un governo decoroso (Ciampi all’Economia, Di Pietro ai Lavori pubblici, Veltroni alla Cultura, Bindi alla Sanità): il migliore del ventennio. Forse, se avesse potuto lavorare cinque anni, ci avrebbe risparmiato il ritorno di B. nel 2001, con tutto quel che ne seguì. Dopo la batosta del ’96, il Caimano – già scaricato da Bossi – era considerato bollito dai suoi, che infatti cercavano un leader alternativo tra Fazio, Di Pietro, Monti e Dini. Ma la Volpe del Tavoliere (copyright Rossana Rossanda) lo resuscitò, nell’illusione di inaugurare una lunga Era Dalemiana, che invece durò meno di 15 mesi: Max ora accusa giustamente Renzi di aver perso 2 milioni di voti in un anno (dal 40,8% delle Europee 2014 al 30 degli ultimi sondaggi), ma nel 2000 riuscì a perdere rovinosamente le Regionali e se ne andò con la coda fra le gambe. Il resto è una collezione di fiaschi da far invidia alla sua cantina sociale. Candidato al Quirinale nel 2006, fu trombato da Napolitano. Aspirante presidente della Camera, fu scavalcato da Bertinotti. Nel 2007 studiava da leader del Pd, ma incappò nello scandalo Unipol e dovette cedere lo scettro all’odiato Veltroni, peggio che bere la cicuta. E così via, fino alla corsa per fare il Mister Pesc europeo a colpi di affettuosi scambi di sms con Renzi che, al dunque, lo umiliò preferendogli il nulla, cioè la Mogherini. Quanto al suo presunto antiberlusconismo, meglio l’oblio. D’Alema sapeva benissimo chi era B. e, quando stava all’opposizione, lo diceva pure: “È una via di mezzo tra Marinho, il padrone della tv Globo brasiliana, e Giancarlo Cito”. Gli augurava di “fuggire all’estero in rovina”. Lo paragonava a Kim Il Sung e Ceausescu. Lo chiamava “buffone”, “squadrista della tv”, “barbaro”. Irrideva i suoi “tacchi alti alla Little Tony”. Lo minacciava: “Faremo capire al signor B. e ai suoi lanzichenecchi che il Parlamento deve affrontare con assoluta urgenza il conflitto d’interessi e l’antitrust”, “Non riconoscerei B. come premier legittimo nemmeno se rivincesse le elezioni”.
Poi però, quando andava al potere e poteva emarginarlo, si sdilinquiva tutto: “Io di B. mi fido: credo sia sincero quando dice di volere le riforme” (23.1.96), “La Fininvest è una grande risorsa per il Paese” (29.3.96). “Sono preoccupato da una caduta di B.” (31.5.96). “Con B. dobbiamo riscrivere le regole dello Stato democratico” (3.6.96). “FI è un partito confinante col Pds. Ma il nostro non è inciucio: è antagonismo collaborante” (19.12.96). Ora dice di averlo sempre combattuto. Ecco: appena parla D’Alema, tutti capiscono perché c’è Renzi.
Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 29/8/2015