Mario Platero, Il Sole 24 Ore 29/8/2015, 29 agosto 2015
LA MORSA GLOBALE CHE STRINGE LA FED
Chi continuava a proclamare il declino americano rispetto alla Cina in questi giorni si è dovuto ricredere: nel bel mezzo della crisi di mezza estate il segnale di leaderhip per la stabilità (crescita e Borsa) è venuto proprio dagli Stati Uniti d’America. Oggi però la sfida per Washington è quella di dare continuità a questa leadership, soprattutto pensando alla politica monetaria, e in piena consapevolezza che la crisi non sarà archiviata rapidamente per via di una «tenaglia», finanziaria da una parte, economica dall’altra, la cui morsa non si è ancora esaurita.
La leadership americana insomma, dovrebbe affermarsi scegliendo di aumentare al più presto i tassi di interesse. Su questo, razionalmente, sono ormai tutti d’accordo. Con un tasso di crescita al 3,7% al secondo trimestre, con un tasso di disoccupazione al 5,3%, con 13 milioni di nuovi occupati negli ultimi 5 anni, occorre rientrare in un contesto di normalità prendendo atto che il costo del danaro sul mercato interbancario non può essere vicino allo zero all’infinito.
Ma il dibattito è ancora serrato. Da Jackson Hole, dove sono riuniti i banchieri centrali di mezzo mondo a parlare di deflazione, Stanely Fischer il numero due della Fed ha detto che per ora non vi è alcuna decisione sui tassi. William Dudley invece, presidente della potente Fed di New York aveva detto mercoledì di essere contrario a un aumento già nella seduta del 16-17 settembre per via della fragilità dei mercati. Ieri invece James Bullard Presidente della Fed di St. Louis, ha detto che le condizioni economiche americane giustificano un aumento dei tassi al più presto. Grande confusione dunque, in un momento in cui la chiarezza è essenziale. Ed è proprio la necessità di chiarezza insieme alle esigenze di leadership, che dovrebbe portare la Fed ad aumentare i tassi già nei prossimi incontri del FOMC. Tanto più che gli aumenti saranno minimi, di appena 25 punti base e per giunta in modo molto graduale, questo vuol dire che da qui ai prossimi sei mesi potremmo trovarci con tassi fra l’1 e l’1,25% invece che fra lo zero e lo 0,25%, un livello che in altri tempi sarebbe stato comunque considerato ampiamente accomodante.
Ma la razionalità, come abbiamo visto dalle recenti reazioni dei mercati non appartiene alle dinamiche decisionali del nostro tempo. Ci sono troppi elementi che preoccupano la Fed impegnata ad evitare che un passaggio atteso di traduca in una spirale negativa. Una delle incognite riguarda la Cina che potrebbe decidere di accelerare la vendita di buoni del Tesoro americano, creando turbolenze di mercato. Finora le vendite sono state contenute, ma un passaggio a vendite più aggressive è sempre possibile. C’è poi la morsa finanziaria e economica che stringe a tenaglia soprattutto i paesi emergenti. L’onda lunga della crisi economica cinese, i contraccolpi del passaggio da una crescita straordinaria e una crescita sostenibile non si sono ancora fatti sentire fino in fondo. Un esempio: sono diminuite le importazioni di acciaio dal Brasile e di ferro dall’Australia. Non solo, la capacità produttiva di acciaio in Cina è oggi di un miliardo di tonnellate, il doppio del fabbisogno interno attuale. Anche per questo il prezzo del ferro è crollato. Lo stesso vale per le altre materie prime, dal rame al petrolio. Il crollo dei prezzi delle materie prime, esportate soprattutto dagli emergenti, dal Brasile a molti paesi africani, alla Russia, ha già provocato pericolosi contraccolpi in termini di crescita e non è chiaro fino a che punto la situazione peggiorerà sul piano macroeconomico. Di certo l’America da sola con il suo 3,7% di crescita non può essere l’unico locomotore e nel medio termine ci sarà il pericolo di un risucchio per Washington, anche per questioni cicliche visto che la ripresa dura ormai da quasi sette anni. L’altra morsa è finanziaria: L’Istituto per la Finanza Internazionale della Banca Mondiale ha comunicato da Washington che il debito societario degli emergenti è raddoppiato dal 2008 ad oggi, da quasi 3,3 miliardi di dollari a 6,8 miliardi di dollari. Ma quel che interessa in questo dato e’ la composizione: mentre nel 2008 la denominazione in dollari delle emissioni era appena il 15% del totale oggi è salita al 40%. E se la Fed deciderà di aumentare i tassi, la reazione dei mercati sul dollaro potrebbe essere irrazionale con forti spinte al rafforzamento. Già oggi, secondo il Wall Street Journal, la valuta americana si è rafforzata in media del 7% senza aumenti dei tassi. La domanda inevitabile è: come faranno queste aziende a rimborsare il servizio sul debito stretti fra esportazioni in forte calo, economia in rallentamento e un dollaro sempre più caro?
È giusto che queste ed altre riflessioni facciano parte del dilemma Federal Reserve sull’opportunità di alzare o meno i tassi nelle prossime settimane. Allo stesso tempo però 6,8 miliardi di dollari sono poca cosa per il sistema bancario internazionale. E come dice il vecchio adagio, se ci si deve togliere un dente, meglio farlo prima che dopo. Come ci hanno raccontato le cronache delle ultime settimane, le sorprese e i pericoli economici e finanziari sono sempre in agguato. E non c’è dubbio che nell’incontro fra Barack Obama e il leader cinese Xi Jinping, in visita di stato programmata per la seconda metà di settembre si parlerà molto della crisi. Ma dimostrare leadership per la Fed e per l’America vorrà dire anche prendere una decisione difficile in un momento delicato, tenendo presente non solo le volatilità e le implicazioni di breve periodo, ma la visita di Xi e le esigenze di medio lungo termine dell’economia, quella americana soprattutto. Anche perché è l’unico locomotore rimasto in movimento.
Mario Platero, Il Sole 24 Ore 29/8/2015