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 2015  agosto 29 Sabato calendario

QUATTRO BAMBINI NEL CAMION DEI TRAFFICANTI D’UOMINI

NICKELSDORF
Ma come hanno fatto a stiparli tutti e 71 nel camioncino delle salsicce piccanti? Al buio, senz’aria. Solo al più perfido degli esseri umani può venire in mente di far stramazzare senz’aria una bimba di nemmeno due anni e altri tre di 8 o 9, insieme a 68 esseri umani allo stremo. Eccolo lì, quel maledetto camion. Hangar numero “3” della stazione di quarantena per camion carichi di animali a Nickelsdorf, nella vecchia frontiera tra Ungheria e Austria aperta con l’ingresso nella Ue. Gli ultimi 51 corpi sono stati portati via nel primo pomeriggio, ma a sera fatta l’odore di morte si sente a cento metri di distanza. Li si può immaginare tutti in fila al momento di salire. Hanno pagato il viaggio, sanno che non sarà divertente ma si affidano a mafiosi collaudati, gente che trasportava ieri e trasporterà domani. La polizia è sicura: non erano camionisti di passaggio, è il traffico consolidato di esseri umani gestito da tipi che fan paura anche a vederli. E se proprio vuoi vederli, basta fare un giro nelle aree di servizio di confine lungo la rotta dei profughi.
Qui non ci sono le carrette dei mari, non è un viaggio disperato: è un camion. Immaginali lì nell’area di servizio: al confine con la Serbia dove transita la via dei Balcani, o forse già a Budapest dove per molti finisce la prima tappa ungherese e comincia quella verso l’Austria e la Germania. Nessuna panca, non abbastanza spazio per potersi sedere tutti e 71. Li avranno avvisati: non fiatate fino all’ingresso in Austria: li vi apriremo la porta. Niente soste, se scappa te la tieni. Niente luce. Quattro bimbi, otto donne e nessuna pietà. Quando si chiude il portellone di acciaio, con le sbarre di metallo che sigillano tutto, è il buio assoluto.
Gli investigatori cominciano ad avere le idee chiare: il camion è stato parcheggiato sul ciglio dell’autostrada mercoledì mattina. Deve aver viaggiato di notte. Dicono gli inquirenti che «probabilmente erano già morti prima di arrivare in Austria», ma la formula dubitativa è eccesso di prudenza: la frontiera è a una dozzina di chilometri da dove si trovava il camion. Ci sarà una verità giudiziaria ma non ci vuole molto a immaginare cosa sia successo. Una volta attraversata la frontiera dall’Ungheria, inizia subito una decina di chilometri di lavori in corso. Si viaggia a corsia unica fino alla prima uscita di Lago Neusiedl-Pandorf, poi le due corsie si riuniscono poco prima della seconda uscita di Pandorf, e spunta anche una corsia d’emergenza. È lì, appena hanno potuto fermarsi in territorio austriaco, che i due disgraziati alla guida del camion hanno tirato il freno a mano e sono andati a vedere come stavano i poveracci nella stiva. Tutti morti, accartocciati uno addosso all’altro, immobili. I due assassini hanno lasciato il camion senza chiudere a chiave, e se ne sono andati.
Chissà se là dentro hanno avuto il tempo di capire, di disperarsi, prima di morire. Al buio, con quei quattro bimbi che avranno pianto un po’ e poi speriamo si siano addormentati, forse avranno tentato di battere sulla cabina per avvertire i due autisti che lì dentro stava per essere l’inferno. Ma la cabina è separata dal cassone del camion refrigerato. Nessuno poteva sentirli, nel borbottio e nella noia dell’autostrada. Chilometri di asfalto, ma nemmeno poi così tanti: trecento, se sono partiti dal confine serbo. Centottanta se sono partiti da Budapest. Certamente non si sono fermati nelle decine di piccoli e grandi autogrill lungo la strada, magari quelli più discreti nella zona del parco eolico di Babolna, un centinaio di chilometri prima di arrivare al confine. Un controllo e una boccata d’aria: sarebbe bastato un minimo di intelligenza e umanità per salvarli, ma in cabina non c’era né l’una né l’altra.
Quando hanno scoperto di averli condannati a una morte atroce, sono fuggiti via a gambe levate lasciandoli a marcire in autostrada. E quando la polizia è arrivata sul posto incuriosita dal camion parcheggiato, erano già trascorsi due giorni e la morte aveva cominciato a gocciare fuori dalle paratie del camion, macchiando l’asfalto di un orrore che ancora ottenebra, se ti fermi a porgere un fiore. Qualcuno lo ha fatto. Ci sono due mazzi di fiori, tre lumini e davanti a tutto due singoli fiori di loto: la “rinascita”, per gli egizi.
«Aiuteremo i nostri investigatori con una terapia psicologica», dice Gerald Pangl, il portavoce della polizia del Burgenland, lo spicchio di Austria in cui l’odissea dei profughi è finita sull’area di sosta dell’autostrada. «Hanno lavorato sui corpi per cercare di identificarli, e ora continuano a lavorare sugli effetti personali che sono nel camion. Hanno visto l’orrore vero, capisci?». Finora è saltato fuori un passaporto siriano, nulla più. Ma ci sono diverse sim di telefonini che racconteranno altri squarci di vite perdute, spedite ieri a Vienna nelle bare di acciaio per le autopsie.
Per ora hanno catturato quattro persone, tre bulgari e un afgano ma anche su questo non c’è ancora certezza: la versione degli austriaci e degli ungheresi non collima, ma cambia poco. Gli arrestati sono il proprietario del camion, i due autisti e un quarto uomo implicato in qualche modo in quel traffico mortale. È emersa la punta dell’iceberg, ma a guardar bene l’iceberg — un mondo di trafficanti che lucrano facendosi pagare oro per uno strappo a Budapest, e da lì in Austria o direttamente in Germania, lungo la via percorsa da quasi tutti i profughi — era ben visibile anche prima che ci schiantasse il camion delle salsicce “pikantnà”.
Ogni giorno migliaia di profughi in fuga da guerre e prevaricazioni raggiungono l’Europa in barca o a piedi e finiscono nelle mani di chi può aiutarli in cambio del poco che hanno. Vendono la casa, se le bombe non l’hanno distrutta (per quel che può valere, tra un bombardamento e l’altro), e i soldi finiscono nelle mani di chi li aiuta a passare i confini verso il Nord Europa in cui tentare di rifarsi una vita, «almeno fino a quando nel mio paese combatteranno. Se finisse la guerra tornerei a casa di corsa, ma ora voglio solo un posto in cui avere la certezza di essere vivo anche domani, e in cui poter finire l’università », dice il siriano Abood. Lui oggi a Stoccarda c’è arrivato vivo, dopo due mesi di viaggio, e ancora non riesce a crederci.
Paolo G. Brera, la Repubblica 29/8/2015