Giulia Calligaro, Sette 28/08/2015, 28 agosto 2015
L’ULTIMO CALCIO DI PIER PAOLO COLPÌ BERTOLUCCI
Quando il quinto goal entrò in rete, si narra che Pasolini abbandonasse il campo stizzito e accusasse Bernardo Bertolucci di aver assoldato giocatori professionisti contro la truppa sincera di Salò, che lui capeggiava nel ruolo di ala. Il più giovane iniziò la carriera come assistente del poeta di Casarsa, durante le riprese di Accattone nel ’61, e lì vide realizzarsi quella che poi avrebbe definito “la reinvenzione del cinema”. Ma nel marzo 1975 a Parma, dove Bertolucci stava girando Novecento, mentre Pasolini, poco distante nel Mantovano, girava Salò o le 120 giornate di Sodoma, il suo ultimo film nell’anno della morte: la partita passata alla storia come Novecento contro Centoventi, terminata 5-3 per la squadra di casa, mise in gioco ben più di due cast rivali o della rappresentazione sacra del calcio. Schierate erano ormai due visioni opposte e inconciliabili del futuro: l’ideologia ancora salvifica nel grande affresco storico del primo, la fine della speranza nei gironi infernali del secondo. Restavano a Pasolini queste felicità giorno per giorno, come il piacere di due tiri al pallone, che sono immortalati in alcuni dei 15 mila scatti e altri materiali — molti inediti — , conservati nel grande archivio Pasolini di Cinemazero di Pordenone, nel suo Friuli. E ora Cinemazero, insieme alla Cineteca di Bologna, triangolando con il Centro Studi di Casarsa e facendo sponda in altri lidi e enti, sta preparando fatti — e non commemorazioni —, per i 40 anni della scomparsa di uno degli artisti più perseguitati in vita e onorati in morte. Il fulcro sarà proprio il suo testamento filmico, che verrà presentato alla Mostra del cinema di Venezia in edizione non censurata, e per la prima volta in Italia in una sede ufficiale.
GIRONE I, il pasolinificio e l’opera.
Il successo è l’altra faccia della persecuzione*
«Ha prevalso il fascino della biografia, lo scandalo della morte violenta che si riaccende ad ogni anniversario», commenta Riccardo Costantini, coordinatore di Cinemazero: «Mentre la cosa più importante sarebbe rileggere l’opera in forma corretta». Fuori c’è un cielo cobalto che preme i vapori estivi sullo sfondo di montagne verde cupo, facendo sperare in temporali. Intorno, nel paesaggio, quel che resta dello stupore di esistere tra gli Dei camperecci che tracciarono per sempre l’orizzonte della nostalgia di Pasolini. Orizzonte di vita da contrapporre alla morte che cresceva tutt’intorno, e una vitalità, disperatissima ma presente, che si intuisce ancora in questi ultimi fotogrammi, in nastri audio inediti, in interviste di backstage e altri documenti raccolti qui tra gli scaffali, in faldoni siglati “Salò”: Pasolini che balla in una pausa delle riprese, Pasolini che dà agli attori indicazioni affilate sulle torture in scena e subito aggiunge un pensiero personale per il giorno di festa, Pasolini in un sorriso di tregua. Per far parlare i testi al posto delle congetture, per lasciare appuntita la sua scomodità, l’asse Pordenone-Bologna ha dunque in mente per il quarantennale una vera infornata di opere e testimonianze: «Alla Mostra del cinema, Salò o le 120 giornate di Sodoma, riedito a cura dalla Cineteca di Bologna con materiali nostri, sarà corredato da un’intervista dell’amico giornalista Gideon Bachmann, ci saranno poi esposizioni di scatti mai visti del set di Deborah Beer, compagna di Bachmann e unica fotografa ufficiale; infine un libro sul “laboratorio di Accattone”, per tracciare un ponte tra il primo e l’ultimo film: un ponte che arriva fino alla sua morte, quando i giornali uscirono indifferentemente con foto del corpo straziato del poeta e del protagonista della pellicola, come lui fosse uno dei suoi personaggi», spiega ancora Costantini con giornali storici alla mano, ad onorare la responsabilità pasoliniana che Cinemazero si assunse fin dal 1979, quando — nato da un anno per opera dei tre cinéphiles Piero Colussi, Andrea Crozzoli e Luciano De Giusti —, organizzò la prima retrospettiva nazionale sul suo “Cinema di poesia” — così si intitolava il volume dello stesso De Giusti —, incassando più tardi l’accusa di aver dato inizio al pasolinificio. Ma allora le sue parole erano ancora indigeste come vetri rotti.
GIRONE II, l’anarchia del potere
La speranza è una cosa orrenda*
Cosa meditasse Pasolini nell’ultimo periodo, quando la Trilogia della vita (Il Decameron, Il fiore delle Mille e una notte e I racconti di Canterbury, terminata nel ’74) virò al nero di Salò, e la speranza di riposare ancora in un modo antico e libero di fare l’amore trasfigurò in sesso crudele, lo apprendiamo con ampiezza ripassando le parole corsare della sua “tribuna libera” sul Corriere della Sera. Rileggendo l’accanimento con cui ripeteva il danno della mutazione antropologica degli italiani in un’unica piccola borghesia dei consumi: «Gli italiani sono divenuti un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale», scriveva. Una sofferenza storica in cui era contenuta una più profonda ferita personale per la desacralizzazione e la corruzione di quel mondo popolare che era l’unico cielo in cui potessero respirare gli angoli vivi della sua anima, la sua ansia di umano paradiso. Si affretta perciò nel ’75 a dare alle stampe la Divina Mimesis, libro inconcluso in cui organizzava già il mondo in forma di inferno dantesco. E poi di quell’inferno fa la materia prima di Salò, un film così perfetto rivisto oggi, che le orge del marchese De Sade, applicate da quattro potenti della repubblica fascista sui corpi freddi di ragazzi e ragazze — un tempo “di vita” —, non eccitano e non muovono pietà nello spettatore: non c’è più nulla di non formalizzato, nessuna risposta spontanea, cioè pasolinianamente vera. «L’atmosfera nel set era molto allegra, l’organizzazione delle scene, i falli che giravano, la creazione di montagne di escrementi finti, talvolta finivano nell’ilarità; ma lui nel profondo era totalmente deluso», testimonia Bachmann che lo seguiva da Accattone, ritraendolo fuori scena: «Prima aveva creduto nella poesia friulana, poi nei giovani delle borgate, poi negli intellettuali come Moravia e la Morante, poi non aveva più creduto in nulla». «È un film sull’anarchia del potere», Pasolini si spiegava così allo stesso Bachmann nell’intervista che ora uscirà: «Il sesso qui ha la funzione di rappresentare cosa fa il potere del corpo umano: l’annullamento della personalità. Il film è rituale perché il potere è rituale, e l’uomo ama i riti perché è conformista. Non bisogna sperare di uscire di qui, la speranza è una cosa orrenda».
GIRONE III, il rovesciamento del bello.
La cosa più importante della mia vita è stata mia madre **
«Pier Paolo non era un allegrone, diciamo, ma gli piaceva vivere», ricorda con foga affettuosa il suo attore simbolo Ninetto Davoli. «Avevamo ancora progetti insieme e poi diceva che saremmo dovuti andare a vivere lontano, in Africa forse». Dopo La ricotta, Ninetto saltò soltanto Medea e Salò della filmografia di Pasolini: «Io rappresentavo per lui la gioia nel buio, diceva: “Cosa ti metto a fare in Salò? Uno col tuo carattere lo ammazzerebbero subito”. Così scherzava». «Era fibrillante per l’urgenza di questo film, e io gli ho detto di sì», testimonia Alberto Grimaldi, produttore allora e collaboratore anche della nuova edizione di Salò. «Apocalittico, questa forse è la parola tecnica di quei suoi anni», precisa il cugino Nico Naldini, in proprio scrittore e collaboratore di tutti i progetti pasoliniani, in una giornata rovente che costringe al buio della stanza nella sua casa di Treviso, in cui ugualmente si intuisce lo sguardo fondo, le linee del viso lungo le guance, i capelli folti e bianchi che ci illudono di come forse sarebbe stato oggi Pasolini: «Certi artisti incontrano nella loro vita l’orrore, ovvero il rovesciamento di quello che per loro era il bello. Questo fondo avrebbe approfondito Pier Paolo se fosse vissuto, e io credo che avrebbe sistemato le cose in Petrolio, il progetto di una vita». E poi il racconto si distende in dolcezza nei ricordi: «Dopo la sua morte successe un’alchimia: Susanna, la madre per cui lui visse e lei per lui, iniziò a manifestare forti disturbi e si decise di riportarla a Casarsa. Lì la sua memoria bloccò il tempo all’epoca in cui era una ragazza, parlava di un fidanzato con mia madre e io ebbi occasione di rivivere un tempo ideale che non sapevo. Davanti alle tombe dei figli Guido e Pier Paolo piantava occhi vuoti, senza le domande che non voleva fare». Per queste persone che l’hanno amato, l’anniversario della morte di Pasolini è ogni giorno.
EPILOGO, un paese di temporali
e di primule
Tutto poteva, nella poesia, avere una soluzione **
«Questa pare la piazza di Casarsa», punta il dito Riccardo Costantini in alcune foto delle scene del rastrellamento in Salò, poi tagliate. «Questo fiume ricorda certi squarci sul Tagliamento, e i giovani qui sembrano quelli di Porzus, dove Pasolini perse, e non dimenticò mai, il fratello», si sposta ancora tra le pagine dei documenti. Siamo di nuovo in Friuli, a Cinemazero, a spigolare la vita nella morte, a cercare la sua pace tra i filari di vigna nei paesi stretti tra le montagne e il mare: “dove scoppiano improvvisi temporali”, scriveva Pasolini, che proprio da un moto di furia, acceso da severità e pudore, fu costretto alla fuga da questa terra nel ’49, con in mano la prima di una lunga serie di denunce per scandalo. E questo lutto restò forse per sempre incolmato. «In tutti i primi film di Pasolini, fino al Vangelo secondo Matteo, si ripete la morte del protagonista per l’urto tra un mondo di appartenenza puro e la città», spiega in conclusione Luciano De Giusti, che con Roberto Chiesi cura il volume su Accattone: «Ma in realtà nel primo trattamento “Accattone” non moriva, si tuffava nel fiume e lasciava aperta ogni ipotesi». Così sarebbe più bello immaginare quel che ci rimane di Pasolini, lui che tra i suoi ultimi gesti, quasi per sfregio, allungò la lama del disincanto fino alle poesie più care, scritte in dialetto di Casarsa e raccolte nella Meglio gioventù nel ‘41, diventate nel ’74 la Nuova gioventù. Il gesto di chi muore ma vorrebbe amare, piange ma vorrebbe cantare. “Camminerò leggero, andando avanti, scegliendo per sempre/ la vita, la gioventù”, si legge in Saluto e commiato. Un testamento alternativo.
*Titolo tratto dall’ultima intervista
di Pasolini per la tv francese.
**Titolo tratto dall’autointervista,
oggi raccolta in Poeta delle ceneri.