Francesca Mannocchi, Sette 28/08/2015, 28 agosto 2015
«NELLA CITTÀ DEL PETROLIO VERSIAMO SANGUE IN CAMBIO DI BENZINA»
Bengasi, la città che quattro anni fa fu teatro delle prime manifestazioni contro il regime quarantennale di Gheddafi, da un anno e mezzo è un campo di battaglia. Nel maggio 2014, quando il generale Khalifa Haftar ha lanciato l’Operazione dignità per liberare la città dai terroristi, per molti abitanti di Bengasi sembrava essere iniziato un nuovo periodo di speranza dopo una lunga stagione di rapimenti e di omicidi mirati contro attivisti, soldati e giornalisti. Oggi, dopo 16 mesi di guerra, si contano i danni: milleseicento morti (secondo il Libya Body Court) e un quarto dell’intera popolazione cittadina sfollato. Diciottomila famiglie, più di centomila persone. I più ricchi sono scappati all’estero, i più poveri si spostano da una scuola all’altra: a causa della guerra tutti gli istituti sono stati chiusi e le lezioni sono state sospese. Le aule sono diventate le abitazioni delle famiglie senza tetto.
Da marzo scorso Khalifa Haftar è il capo supremo delle forze armate libiche che dipendono formalmente dall’unico governo riconosciuto dalla comunità internazionale, cioè quello basato a Tobruk e presieduto da Abdullah al Thani. Nonostante i proclami, la situazione a Bengasi è in stallo. L’esercito non dispone né di mezzi adeguati né di armi adatte a fronteggiare le milizie islamiste e jihadiste. Ci sono undici fronti aperti e per le strade regna il caos. Il generale sostiene di avere sotto controllo il 90% della città, ma il Consiglio della Shura dei Rivoluzionari (in coordinamento con Ansar al Sharia e collegato a Fajr Libya, le milizie vicine al governo di Tripoli) controlla intere aree di Bengasi. Quelle intorno al porto, per esempio, da cui sembrerebbero arrivare le armi e le munizioni destinate all’Isis. E l’area della discarica, a sud della città, per cui intere strade sono diventate cumuli d’immondizia. Il porto e l’aeroporto sono chiusi. Cominciano a mancare i beni di prima necessità: anche il pane. Le code infinite per il cibo iniziano all’alba ogni giorno e vanno avanti fino a sera. Comincia a scarseggiare pure la benzina.
«Ma è possibile che in Libia manchi la benzina?». A farci notare il paradosso è Ibrahim. In una mano ha una tanica vuota, con l’altra tiene il figlio. Lui era un insegnante. Ora non ha più un lavoro. «Sono venuto qui anche ieri. Sono stato ore in coda per comprare un gallone di benzina. Ci serve per i generatori, perché l’elettricità salta continuamente. A volte per giorni interi. Sta andando tutto a rotoli, il sistema di distribuzione è saltato». Il suo vicino, Mahmoud, è ancora più rassegnato. Tiene gli occhiali bassi sul naso: «Abbiamo avuto problemi con Gheddafi per 42 anni, ma gli ultimi quattro sono stati anche peggio. Guardate come è ridotta questa città: check point ovunque, ragazzini armati… In una via la gente prova a sopravvivere, in quella accanto si spara. Ogni giorno».
Alle nostre spalle, alla fine della coda, scoppia una rissa. La tensione sale perché la benzina non basta per tutti. A farne le spese sono i cittadini, a guadagnarci, invece, sono i contrabbandieri che fanno fiorire il mercato nero: carburante e generatori di corrente, venduti a prezzi esorbitanti, a ogni angolo di strada. Prima di allontanarsi con la sua tanica vuota, Mahmoud recita un detto tradizionale libico: «Non si può cambiare niente senza spargere sangue. Ora ci tocca combattere anche per la nostra benzina».