Emanuela Audisio, la Repubblica 28/8/2015, 28 agosto 2015
LE SEDICI MERAVIGLIE DI BOLT –
Mister Gold non lo azzoppa nessuno. Né il cameraman che con il due ruote elettrico gli fa fallo da dietro e lo manda a gambe all’aria con una capriola perfetta. Né l’uomo che da anni se l’è messo con gli spilloni sulla parete della stanza da letto. I 200 sono suoi in 19”55, miglior prestazione mondiale dell’anno (tiè fregato Gatlin anche sul crono). Superhero Bolt c’è, nessuno lo fa dimettere. Il tempo lo sfiora, ma non lo uccide. Dopo sette anni è ancora qui. Padrone, imperatore, dittatore: da Pechino 2008 a Pechino 2015. Forever faster, se serve, quando serve.
Chiamatelo come vi pare, anche imbattibile. Usain Bolt è l’uomo dei record: 6 ori olimpici, 10 titoli e 12 medaglie mondiali, due più di Lewis (che però faceva anche il lungo). Da solo ai mondiali ha vinto più di tutta l’Italia in 32 anni di atletica. In Giamaica oltre ad un’autostrada dovrebbero dedicargli mezza isola. E se c’è qualcosa di complicato e di politico da spiegare alla popolazione lo tirano in ballo: «È come se Bolt dovesse…».
I 200 metri sono la sua gara. È al suo quarto successo mondiale consecutivo. Li corre da quando aveva 15 anni, ci tiene in maniera pazzesca. In otto stagioni li ha persi solo una volta, nel 2010 ai Trials, a casa sua, battuto dal compagno Yohan Blake (19”86 contro 19”80) che gli aveva rifilato uno schiaffone anche nei cento. Una sconfitta in 27 finali. Bolt è così: potete derubarlo una volta, poi basta, non ce la fate più. Ai mondiali del 2005 Gatlin vinse l’oro, Bolt che stava male arrivò ottavo. Mai più capitato. A Pechino Bolt gli ha rifilato due metri secchi. Rallentando anche, perché che fretta c’era? Ha anche fatto in tempo sul traguardo a guardarsi sul maxischermo e a indicare la maglia con i pollici, come a dire: guardatemi, sono sempre io, non potete sbagliarvi. Se nei 100 il distacco con Gatlin era stato di un soffio, 13 millesimi di secondo, vale a dire 13,3 centimetri, nei 200 è stato netto. L’americano (19”74) non ha mai illuso, né forse si è illuso di poter vincere. A fine curva, game over. Un conto è pavoneggiarsi, un conto è portare a casa la preda. Il bronzo è andato al sudafricano Jobodwana (19”87). Alla fine Gatlin sembrava quasi sollevato, nulla appaga di più di un ruolo certo, e il suo è quello del soccombente. Non del vendicatore. Ha 33 anni, la rabbia l’ha tenuto in gioco, voleva riprendersi quello che era suo dopo due squalifiche per doping. C’è quasi riuscito e quest’anno con Bolt infortunato stava per rientrare in possesso del suo impero. Usain l’ha lasciato fare, gli ha fatto credere in una supremazia, ma al momento buono gli ha sbarrato la strada. Ha faticato, ma ci è riuscito. L’altro si è sentito già sul trono, i tempi gli davano ragione, avrà fatto anche le prove con mantello e corona, Bolt non gli ha tolto lo specchio, anzi gliene ha messi altri. E Gatlin ha iniziato a sentire la pesantezza della sua grandezza. Peccato che il vero re fosse lì, solo un po’ nascosto, ma che ci volete fare Usain è così, lascia vivere, si secca solo se insistete a volere fare voi le leggi. E poi se si è messo a correre da ragazzo è stato per evitare gli scapaccioni.
Alla fine della gara i due hanno anche scherzato. Bolt, come sempre madido di sudore, si è seduto su una sedia per riposarsi e Gatlin ha portato lì una panca per far vedere che anche lui aveva bisogno di riprendersi. Che poteva dire? «Sono contento dell’argento, ma devo allenarmi di più per batterlo». Non ha capito che Bolt in queste ultime due stagioni si è nutrito di lui. Lo ha fatto scappare quando non serviva, lo ha ripreso quando contava. Se ne è servito come motivazione, perché correre per sette anni da numero uno logora la voglia (e la salute). Usain vuole la leggenda. Gli piace intrattenere il pubblico, ma si annoia a fare sempre l’uomo dei miracoli. A 29 anni recupera con più difficoltà. Può correre veloce qualche volta, non sempre. Però per 31 volte è sceso sotto i 20”. Un record. Di chi ha orgoglio, passione, fedeltà. E se dice che vuole arrivare a Rio e riuscire anche lì a vincere, contateci. Ormai il suo giro trionfale di pista dura cinque volte più della sua gara: tra selfie, giochi, scenette. E quando lo richiamano e gli dicono di sbrigarsi, lui risponde no, e si prende tutto il tempo. Poche parole, per ribadire quello che conta: «Ho dimostrato al mondo che sono ancora il numero uno. Mi sono divertito. I 200 sono la mia gara, ho fatto quello che dovevo fare con una buona prestazione e questo è bello». Non c’è altro dal pianeta Bolt. Dove c’è ancora vita e corsa.