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 2015  agosto 27 Giovedì calendario

L’INDIA RESISTE ALLO SHOCK VALUTARIO

Con rupia e Borsa in calo rispettivamente del 4,2% e 6,5% da inizio anno, l’India può considerarsi ai margini della tempesta che sta mettendo alle corde i Paesi emergenti.
La moneta è ai minimi da due anni, vale a dire dalla crisi dell’estate del 2013, ma valute come lira turca e real brasiliano accusano crolli superiori al 20% sul dollaro. Rispetto a due anni fa, il Subcontinete è più solido, in parte grazie alla riduzione del deficit commerciale e dell’inflazione, in parte per la ritrovata credibilità della Banca centrale (Rbi), passata proprio a fine 2013 sotto la guida di Raghuram Rajan, ex capoeconomista dell’Fmi.
L’India è avvantaggiata dalla discesa dei prezzi del petrolio e dalla minor dipendenza dalle esportazioni nette. Rispetto ad altre economie emergenti, è anche meno dipendente dagli investimenti esteri. Fattori che fanno da scudo in un quadro finanziario internazionale incerto, spiega Atsi Sheth, senior vice president del Sovereign risk group di Moody’s a Singapore. «Il consolidamento dei conti pubblici e la stretta monetaria degli ultimi due anni, anche se possono frenare lo sviluppo nel breve termine - continua - lo renderanno più sostenibile e resiliente rispetto alla volatilità dei capitali esteri».
Una crescita miracolosa
L’India può esibire uno scintillante tasso di crescita compreso tra l’8 e l’8,5%, stando alle previsioni del governo per il 2015. Un ritmo di espansione che le vale la maglia rosa tra le grandi economie. Non tutto è oro quel che luccica però: le statistiche indiane non hanno nulla da invidiare a quelle cinesi in fatto di opacità, soprattutto da quando, all’inizio dell’anno, il metodo di rilevazione del Pil è stato modificato, trasformando in boom una fase economica che tutti descrivevano come una deludente stagnazione. Compreso il premier Narendra Modi, quando era ancora leader dell’opposizione e ne faceva un cavallo di battaglia nella campagna elettorale che poi lo ha visto trionfare, a maggio del 2014. La stessa Rbi ha espresso perplessità sull’attendibilità delle statistiche. E in fondo, quando continua a chiedere il taglio dei tassi in una fase di forte accelerazione della crescita, anche il governo mostra di non crederci fino in fondo. Intanto, dal settore immobiliare arrivano segnali allarmanti: nella prima metà dell’anno i nuovi cantieri sono diminuiti del 40%. A New Delhi, costruttori sempre più indebitati cominciano a licenziare man mano che rimandano l’avvio di nuove opere, nella speranza di smaltire le quasi 700mila abitazioni realizzate e invendute. Per quest’anno, Moody’s prevede una comunque invidiabile crescita del Pil del 7%.
L’effetto petrolio
Se a Paesi come la Russia il crollo delle quotazioni del greggio fa venire i brividi, a un grande importatore come l’India, che compra l’80% del petrolio che brucia, può fare solo bene: da un lato contribuisce alla discesa dei prezzi al consumo, dall’altro, riduce il deficit commerciale. Non solo. Il governo Modi ha subito approfittato della flessione del barile per dimezzare i sussidi sui carburanti, alleggerendo i conti pubblici e liberando risorse per costruire nuove infrastrutture, tanto necessarie in un Paese in cui gran parte della popolazione ha accesso limitato all’acqua (e a volte non ce l’ha proprio), i black out costringono le aziende a dotarsi di generatori elettrici autonomi se non vogliono interrompere la produzione, le reti ferroviarie e stradali sono così carenti che buona parte della produzione alimentare deperisce prima di arrivare ai mercati di consumo, contribuendo a tenere alti i prezzi.
Conti pubblici
Se per vedere infrastrutture moderne servirà tempo, il miglioramento dei conti pubblici c’è già: il governo punta a ridurre il deficit al 3,9% del Pil entro l’anno (era al 4,8 nel 2012). Parte della correzione dipende però dalle privatizzazioni, dalle quali ci si aspettano entrate per 10,5 miliardi di dollari, ma che potrebbero essere minacciate dal deterioramento dei mercati.
Il deficit commerciale
L’India importa più di quanto esporti: nell’anno di bilancio chiuso a marzo scorso, il deficit è stato di 27 miliardi di dollari. Grazie però al calo della bolletta energetica, il dato è il più basso da sette anni, l’1,3% del Pil, contro il picco del 4,8% raggiunto nel 2012. Con la Cina, però, il deficit commerciale è stato di 36 miliardi di dollari nel 2014 e un deprezzamento dello yuan potrebbe migliorare ancora i conti con l’estero. L’export verso la Cina vale solo il 10% delle esportazioni indiane (quanto a investimenti diretti, negli ultimi 14 anni da Pechino sono arrivati meno capitali che da Polonia o Malesia). Quello che da un lato si presenta come un vantaggio, dall’altro può però diventare un boomerang. Gran parte del deficit con Pechino, infatti, è concentrato nell’elettronica, dove le imprese indiane già non riescono a stare al passo con i prodotti importati. Se i prezzi dei telefonini cinesi scenderanno ancora per effetto dello yuan, i produttori locali faranno ancora più fatica.
Make in India
Proprio sul potenziamento dell’industria nazionale punta però il governo Modi con il pilastro del suo programma economico, quel Make in India che vorrebbe trasformare il Paese in un hub manifatturiero su scala globale, imitando il modello orientato alle esportazioni a basso costo che però mostra oggi tutti i suoi limiti nella parabola cinese. Producendo appena il 17% del Pil, il manifatturiero è del tutto insufficiente sia ad assorbire i quasi 12 milioni di indiani che ogni anno entrano nel mercato del lavoro, sia a dare al Paese una struttura produttiva moderna. Anche qui non mancano gli scettici e tra loro spicca proprio Rajan, secondo il quale non ha troppo senso cercare di creare una seconda Cina, quando la debolezza della domanda mondiale fa fatica a sostenerne una.
L’effetto Rajan...
Finora è stata una delle più efficaci frecce nell’arco dell’India. Appena insediatosi, il governatore della Rbi ha dichiarato lotta all’inflazione, mettendola al centro della politica monetaria, fino a quel momento costretta a inseguire troppi traguardi: prezzi, valuta, crescita. Rajan ha fissato un target per i prezzi al consumo, che dovranno attestarsi sotto il 6% entro gennaio del 2016 (e poi stare in un range tra il 2 e il 6%). Grazie anche alla congiuntura internazionale, i risultati sono arrivati: a luglio l’inflazione si è fermata sotto il 3,8%, a dicembre del 2013 sfiorava l’11%. La Rbi può poi contare su un cuscinetto di riserve valutarie di circa 380 miliardi di dollari. I rapporti con il governo però non sono sempre semplici. Rajan ha già tagliato i tassi tre volte quest’anno (portandoli al 7,25%), ma l’esecutivo e le lobby industriali premono perché prosegua. Qualche settimana fa, il ministero delle Finanze, da cui la Rbi dipende, ha cullato l’idea di sottrarle la leva dei tassi per metterla nelle mani del governo, con una proposta di riforma rapidamente accantonata di fronte al diluvio di critiche piovute da tutti i fronti.
...e le riforme al palo
Per liberare il proprio potenziale, questo mercato da oltre 1,2 miliardi di abitanti ha bisogno di profonde riforme. Modi le ha promesse, ma a oltre un anno dall’insediamento, è riuscito a mantenere poco: della riforma agraria si sono perse le tracce, quella del mercato del lavoro non supera la fase delle intenzioni e ormai si è incagliata anche l’introduzione di un’imposta nazionale sul valore aggiunto, che farebbe del Subcontinente un mercato unico. Il governo non è rimasto con le mani in mano e ha facilitato gli investimenti esteri, ma la politica si conferma il grande freno dell’India.
g.didon@ilsole24ore.com
Gianluca Di Donfrancesco, Il Sole 24 Ore 27/8/2015