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 2015  agosto 27 Giovedì calendario

SE L’EUROPA INVESTE DI PIÙ LA CINA FA MENO PAURA

Un ministro cinese spiegava l’inevitabile ritorno del grande Paese asiatico alla supremazia globale con un paragone suggestivo e apparentemente intriso di saggezza: «Gli americani sono gli unici ad avere sul mondo uno sguardo ’largo”, voi europei avete invece uno sguardo “profondo”, ma solo noi cinesi abbiamo uno sguardo “lungo”». È l’illusione che esista una capacità millenaria della Cina nel governare, una specie di inevitabilità storica. Negli ultimi mesi invece il governo di Pechino ha commesso una serie di errori nel difficile passaggio dell’economia cinese dalle prime fasi di sviluppo a un sistema più equilibrato, meno basato su debito e investimenti. Per ora quello che il Fondo monetario solo dieci giorni fa descriveva come un aggiustamento a una «nuova normalità» – caratterizzata da una crescita più lenta ma più sicura e sostenibile – ha incrinato alcune certezze sull’economia mondiale. Se l’instabilità finanziaria cinese dovesse protrarsi, dei pilastri della ripresa europea a inizio anno – calo dell’euro, ripresa del commercio globale, minore austerità e basso prezzo del petrolio – rimarrebbe saldo solo l’ultimo.
L’incapacità europea di auto-sostenere la propria economia rende la crisi cinese un’importante ragione di riflessione. Su una cosa infatti il ministro cinese aveva ragione: i governi europei non sanno pensare né largo, né lungo. Sono anni che faticano a riconoscere l’impatto della Cina sulle economie nazionali. Cancellando interi settori e mansioni professionali, lo spostamento di 700 milioni di contadini cinesi verso le città ha avuto un impatto sul mercato del lavoro europeo più rilevante di ogni riforma strutturale che invece assorbe l’agenda dei vertici europei. Isolatamente ognuno dei nostri governi manca delle dimensioni per essere un interlocutore attivo nello scacchiere globale. Non siamo “larghi”, dunque, ma non siamo nemmeno “lunghi”, l’orizzonte temporale della politica si ferma al ciclo elettorale nazionale a fronte di eventi che cambiano le epoche.
Così, per necessità o per interesse, nascondendosi dietro sovranità nazionali svuotate, facciamo finta che fenomeni globali come la tragica migrazione dei popoli, o l’apertura dei mercati a miliardi di individui, siano problemi troppo grandi per non risolversi da sé. Lo stesso fatalismo ci guida in questi giorni: chi osserva che l’export della Germania verso la Cina è pari a solo il 6,6% del totale, come quello dell’Olanda, sottovaluta la fragilità della domanda interna europea. Un solo esempio: Volkswagen, il maggior gruppo industriale tedesco, produce un terzo delle proprie vetture in Cina, ma ricava da quel mercato quasi due terzi dei profitti totali. Dagli utili attesi dipendono le decisioni di investimento, le scelte di localizzazione delle produzioni e ovviamente i posti di lavoro. Due terzi degli utili azionari inoltre finiscono a investitori stranieri. Il risultato è che l’export aumenta, se Cina e Usa tirano, insieme agli indici di Borsa, ma non crescono né i redditi domestici, né gli investimenti, né l’occupazione. Gli ultimi dati sull’economia tedesca la dicono lunga. La crescita è discreta, ma gli investimenti restano al di sotto del livello del 2008, e a fine anno il surplus dei conti con l’estero potrebbe raggiungere uno scioccante 10% del Pil: il riflesso di un vuoto di domanda che sottrae crescita anche ai Paesi vicini.
Il paradosso è che la retorica di questi anni sulla necessità di stare in piedi da sé non corrisponde al modello europeo che, centrato sull’export, è invece molto dipendente dalla crescita altrui. Per ragioni demografiche, ma anche per scelta politica, ogni Paese europeo è esposto all’instabilità altrui. La crisi cinese e la depressione europea puntano il dito dunque sul vuoto di una comune politica economica europea – incapace di sostenere la crescita quando è necessario – e sulla fragilità di un modello di sviluppo basato su livelli di investimento molto bassi. La speciale carenza di investimenti nell’euro-area si spiega d’altronde con i problemi degli ultimi anni nell’offerta di credito e nel grado di incertezza politica. Entrambi questi fattori sono collegati alla crisi dell’euro-area e si sommano in modo indipendente all’effetto di riduzione degli investimenti provocato da una crescita comunque bassa. L’incapacità di tornare al livello degli investimenti pre-crisi è la ragione primaria del protrarsi della crisi stessa in un circolo vizioso tra bassa crescita e incertezza politica.
È esagerato criticare l’Europa anche quando in crisi è la Cina? Forse sì. Ma i problemi europei, l’incapacità di assumere una personalità unica e attiva nella politica economica, sono la ragione per cui l’euro-area è destinata a pagare anche quando a sbagliare sono gli altri.
Carlo Bastasin, Il Sole 24 Ore 27/8/2015