Silvia Guerriero, SportWeek 22/8/2015, 22 agosto 2015
L’ALLENATORE OGGI? CUORE E TECNOLOGIA
[Fabio Capello]
Era meglio quando si stava peggio? No, non in questo caso. A patto, se proprio vogliamo dirla tutta, di non avere sempre microfoni e taccuini davanti al naso. Scherza – ma non troppo – Fabio Capello parlando di come è cambiato il mestiere dell’allenatore di calcio, figura protagonista di questo numero speciale di SportWeek, negli ultimi trent’anni. Un argomento che conosce bene: da giocatore ha avuto grandi allenatori ed è diventato a sua volta un grandissimo tecnico, vivendo proprio gli ultimi sei lustri della sua vita praticamente sempre in panchina.
Quali sono stati, dunque, i grandi cambiamenti avvenuti nel suo lavoro?
«Ce ne sono stati tanti, soprattutto grazie alla tecnologia e a studi dettagliati sia sul piano fisico sia sul piano tattico, e mi riferisco ad allenamenti specifici per preparare la squadra alle varie partite. Gli aiuti tecnologici sono enormi perché il resoconto che oggi si può avere dopo una partita sulle performance della squadra e dei singoli giocatori è utilissimo, così come avere a disposizione i dati degli avversari, che indicano dove attaccano di più, dopo sono più difettosi, dove difendono meno e così via. Senza dimenticare i video, che permettono di studiare tutte le partite dell’avversario. Questa è stata secondo me la più grande evoluzione, ma i cambiamenti sono davvero tanti».
Per esempio nello staff: una volta l’allenatore era più “solo”, adesso è circondato da preparatori, medici, specialisti... Pensa siano figure fondamentali nel calcio di oggi?
«Sì, aiutano tantissimo. Ormai lo staff, che è aumentato in maniera esponenziale, deve comprendere due preparatori atletici, il preparatore fisico, l’osteopata, il nutrizionista, lo psicologo (che in Italia ha utilizzato per primo il Milan, con Bruno De Michelis), tutti professionisti che hanno fatto sì che ci fosse un miglioramento, nello specifico e nell’individuale, di ogni giocatore. A proposito: un altro grande aiuto che hanno oggi gli allenatori è che i giocatori vengono monitorati costantemente. Guardiamo sempre le analisi del sangue, che danno l’idea esatta dello stato di salute dell’atleta. E poi sfruttiamo al meglio Gps e cardiofrequenzimetro; sono già vent’anni che si usano, però ora ci sono studi più specifici sui dati raccolti che aiutano a capire la condizione fisica del giocatore».
Tutti questi numeri e questa tecnologia non rischiano di togliere un po’ di cuore al vostro mestiere?
«Se uno non capisce che si può usare la tecnologia mettendoci il sentimento, meglio lasciar perdere! Possiamo inventare tutto quello che vogliamo, però se non c’è il feeling tra la squadra e l’allenatore, e tra i giocatori stessi, diventa tutto molto difficile, molto empirico. Secondo me una cosa fondamentale che un bravo mister deve saper fare è trovare dei leader che possano far eseguire in campo quello che il leader massimo, che è l’allenatore, vuole trasmettere. E attenzione perché la leadership non si compra: o ce l’hai e la trasmetti... Perché poi bisogna pensare che ogni giorno sei giudicato da 30-35 persone, tutti quelli che lavorano con te, e che guardano le reazioni che hai, quando vinci e quando perdi, e il rapporto che hai con i giocatori. Ecco, sotto questo aspetto c’è stata un’altra grande evoluzione con il potere dei procuratori, grazie ai quali siamo più tutelati».
È cambiato qualcosa anche a livello di tecnica e tattica?
«Beh, sì, c’è stata l’evoluzione della palestra e quella del sistema di allenamento. Però vorrei ricordare una cosa. Ho letto tutti i resoconti tecnici che quest’estate hanno fatto i miei colleghi sulla Gazzetta, parlando del loro sistema di preparazione, e molti spiegavano di aver usato solo il pallone come fosse una novità. Allora. Nel 1969-70, quando giocavo nella Roma, Helenio Herrera è stato il primo che ha fatto tutta la preparazione sempre e solo con il pallone. Adesso quando sento dire “bisogna che il giocatore faccia tutto il lavoro solo con l’attrezzo perché così si abitua a lavorare alle diverse velocità” mi viene da ridere... Herrera quasi cinquantanni fa faceva già quello che adesso tutti fanno e tutti copiano».
Lei ha avuto la fortuna di essere allenato da un altro grande mister, Nils Liedholm.
«E ricordo che ogni giorno, prima di iniziare l’allenamento, faceva fare mezzora di tecnica individuale. Vedete? Sono cambiati i ritmi, si sono evoluti gli esercizi, ma nessuno inventa più niente. Siamo passati da un momento in cui si lavorava sulla tecnica, con questi allenatori, ad altri che invece di usare la tecnica avevano basato tutto sulla corsa piuttosto che sul lavoro col pallone. E ora si sta tornando indietro. In questo senso non cambia nulla».
Che cosa invece è cambiato, in negativo, per un allenatore?
«Il mondo della comunicazione: adesso ci sono tutte queste televisioni private in ogni città e provincia che possono creare problemi. La pressione della stampa, soprattutto nei confronti di noi allenatori, è enorme. E se non sai conviverci, diventa difficile il mestiere. Questo la gente che lavora con te lo capisce, vede se la sopporti o no, dalle reazioni che hai quotidianamente, durante gli allenamenti. Oggi un tecnico deve saper gestire pure questo».
Quali altre caratteristiche e qualità deve avere un buon allenatore?
«Secondo me per prima cosa deve capire che squadra e che giocatori ha in mano. Poi cercare, in base alle caratteristiche dei giocatori, di impostare la squadra e farla giocare in un certo modo. Cercare di far rendere al meglio un giocatore mettendolo nella miglior posizione possibile. Poi deve essere un bravo psicologo: capire cosa serve ai singoli ragazzi, e soprattutto avere la gestione del gruppo. E in una squadra ci sono sempre il contento, lo scontento, il gruppetto...».
Chi è stato per lei il più grande allenatore di tutti i tempi?
«Preferisco dire quelli che hanno dato una svolta al gioco del calcio. Per come la vedo e l’ho vissuta io, ci sono stati cambiamenti ogni vent’anni. Il primo l’ha fatto l’Ajax negli Anni 70, con vari allenatori, poi Arrigo Sacchi col Milan (lavoro che io ho proseguito) e l’ultimo è stato Guardiola con il Barcellona, con questo sistema che tutti cercano di copiare, sbagliando, perché, riagganciandoci al discorso di prima, non hanno gli uomini di quel Barcellona».
Lei di grandi allenatori ne ha avuti parecchi: c’è una frase che ha sentito da uno di loro e che poi ha fatto sua?
«Certo, questa di Herrera: “Come ci si allena, si gioca”. Illuminante nella sua semplicità. Adesso quasi tutti i tecnici e i preparatori dicono che gli allenamenti devono essere intensi. Bella scoperta! Quando non erano intensi, Herrera ci faceva cambiare il possesso palla: chi non lavorava veloce, via, dall’altra parte. Noi allenatori siamo migliorati, siamo più attrezzati e pure vestiti meglio, però, ripeto, non inventiamo più nulla».
E il suo motto come allenatore?
«Ho sempre cercato di far capire quella che penso sia la cosa più importante: il grande giocatore dev’essere sempre al servizio della squadra e la squadra al servizio del grande giocatore».
C’è un allenatore della Serie A in cui si rivede?
«Forse quello che mi assomiglia di più, e mi piace molto per lo spirito, è Mihajlovic. È uno diretto, che va dritto al punto».
Uno che la incuriosisce?
«Guardo con molto interesse quello che riuscirà a fare Sarri al Napoli: con l’Empoli ha fatto ottime cose, e questa è esperienza. Che poi paga sempre. O quasi».
Quale sarà secondo lei il prossimo allenatore campione d’Italia?
«La Juventus aveva un distacco enorme negli anni precedenti e quest’anno, pur avendo perso giocatori di classe e di carattere, è sempre la squadra più avanti. Vedremo se i sostituti sapranno dare le stesse cose e se anche Allegri sarà bravo a riconfermarsi: sulla carta, secondo me, il vincitore è ancora lui».