Fabrizio Salvio, SportWeek 22/8/2015, 22 agosto 2015
SALE SUL PALCO L’UOMO SENZA NOME
[Fabrizio Castori]
Dopo una carriera spesa in periferia, a 61 anni Fabrizio Castori conduce per mano la sua Cenerentola nel salotto buono del calcio deciso a non cambiare una virgola nel suo modo di essere, presentarsi e allenare. Non potrebbe neanche volendo, per almeno due buoni motivi: uno, il Carpi da lui portato per la prima volta in A gli sta cucito addosso alla perfezione, e viceversa. Per mentalità, storia personale, cultura e aspetto, Castori e la città sono modellati uno sull’altra, entrambi robusti simboli di una provincia fatta di realismo e sano disincanto, anche verso il dio pallone. Qui, all’allenamento assistono i pensionati, arrivati in bici allo stadio Cabassi per sfidarsi a carte al baretto dell’impianto, roba che solo nei film di Peppone e Don Camillo. Qui il gruppo ultrà più numeroso, si fa per dire, è quello dei GDL, che non è una sigla di guerra ma l’acronimo del nome, Guidati Dal Lambrusco. Qui, insomma, è un’altra dimensione, un’altra vita, un altro calcio, e qui, non a caso, Fabrizio Castori si è realizzato come professionista dopo aver peregrinato per oltre un trentennio nelle serie minori. Perché, ed ecco il secondo motivo per cui lui e Carpi sono fatti per stare insieme, «la mia vera ricchezza è aver conosciuto fa povertà».
È stata davvero così difficile la sua infanzia?
«Se chiudo gli occhi e ripenso a me bambino, l’immagine più bella che mi torna in mente è legata alle partite in oratorio a San Severino Marche, dove sono nato. Perché lì si giocava con il pallone di cuoio, che per me rappresentava un lusso».
La sua famiglia?
«Papà operaio, mamma sarta. In casa si mangiava quello che c’era, e quello doveva bastare. Però noi figli abbiamo studiato tutti, io sono diplomato ragioniere. Ho origini umili: mio nonno paterno era un trovatello, abbandonato alla nascita nella “ruota” piazzata sulla porta dei conventi dove venivano lasciati i neonati dalle mamme che non potevano o volevano tenerli. Mio nonno fu cresciuto appunto dalle suore, che gli diedero per cognome il nome di un animale, come si usava dalle mie parti a quei tempi. Castori è venuto fuori così».
Lo sfizio che si è tolto una volta raggiunto il benessere economico?
«Ho comprato casa e sistemato i miei 3 figli. A 20 anni ho fatto la prima, a 22 il secondo e a 26 la terza. Quando ti basta poco per campare non vai a cercare chissà cosa».
E dopo la promozione il Carpi le ha aumentato lo stipendio da 50 mila euro annui?
«Su questa storia si è favoleggiato pure troppo. Quando ho firmato il contratto, nella scorsa stagione, erano previsti un premio salvezza e uno per la promozione. Il secondo ovviamente più alto del primo. Ho raggiunto l’obiettivo massimo che mi ero prefissato quando ho preso in mano la squadra, va bene così».
Si è mai guardato allo specchio chiedendosi se fosse adatto ad allenare in Serie A?
«No. Il campo è il miglior giudice del tuo lavoro, è quello che dà le risposte. E io la A me la sono conquistata sul campo. Dopo aver vinto campionati allenando in tutte le categorie minori».
Qual è la sua idea di calcio?
«Aggressività, velocità, capacità di andare in porta col minor numero possibile di passaggi».
Non dica che a Torino con la Juve non andrà a fare le barricate...
«Non avrebbe senso farle. Proveremo ad accorciare la distanza tra i reparti e a correre di più».
La regola principale che vige nel suo spogliatoio?
«Il lavoro. Al Carpi, come in tutte le squadre che ho allenato, si lavora. Si suda. Non voglio vedere in allenamento gente che sbuffa o si lamenta. Sono uno alla Zeman, e non soltanto in questo: il fuorigioco con la linea alta fino al centrocampo l’ho fatto anch’io. Poi, cambiata la regola, mi sono adattato».
Altri modelli tra i colleghi?
«Sacchi. Zaccheroni. Sarri. Gente che, come me, è venuta su dal niente: nessun passato da calciatore, tanta gavetta da allenatore».
Incontrasse Mourinho, gli si avvicinerebbe per primo o, foss’anche solo per una questione di età, aspetterebbe di essere salutato?
«Ma io l’ho già incontrato, quando ero a Piacenza e lui all’Inter, in amichevole. Non andò malissimo, vinse solo 2-1. Fu carino, venne lui incontro a me».
Di lei si ricorda sempre la rissa del 2004 nella finale dei playoff per la B contro il Lumezzane, che le costò 2 anni di squalifica: è il peccato più grosso che ha commesso?
«È quello per cui ho pagato in contanti, come in tutti gli altri casi in cui ho sbagliato. Ma a posteriori è sempre facile recriminare o pentirsi: invece io dico che dagli errori nascono le correzioni».
La sua qualità migliore?
«Caparbietà e determinazione».
Il difetto peggiore?
«Non dico bugie. Il rovescio della medaglia è la mancanza di diplomazia, che nel calcio è un difetto. Pagato tante volte».
C’è un suo giocatore sul quale è pronto a scommettere?
«Al c.t. Conte, che si lamenta dell’assenza di giovani difensori in Italia, ho detto di venire a dare un’occhiata ai miei Gagliolo e Romagnoli. E se Lasagna, attaccante, non sfonda in A, smetto di allenare».