Gaetano Imparato, SportWeek 22/8/2015, 22 agosto 2015
IL TRUCCO DEL GLADIATORE
[Roberto Stellone]
Roberto Stellone, 38 anni da Roma, ex punta e tecnico del Frosinone. Segni particolari? Maneggiare con cura: è un debuttante terribile, potrebbe... esplodere ancora.
Da calciatore entrò in Serie A, il 30 settembre 2000, segnando un gol stupendo alla Juventus per il Napoli di Zeman. Da tecnico, tre tornei vinti in quattro anni: subito scudetto con la Berretti frusinate (2011-12), poi la prima squadra in Lega Pro con un settimo posto (quando si dice un’annataccia...), quindi il salto in B nel torneo successivo e subito dopo un’altra promozione, stavolta in A, con il vecchio gruppo e pochissimi (azzeccati) innesti. Stellone ha il sorriso contagioso, è pacato e attento a non atteggiarsi a professore. Va incontro alla A senza cambiare una virgola: «Manteniamo lo stesso atteggiamento: squadra cattiva, che corre, soffre, gioca con intensità e prova a vincere ovunque».
La statistica dei recuperi palla nel torneo scorso è la foto di tutto.
«Già, noi in B e la Lazio in A siamo stati i più veloci nel riconquistare palla agli avversari: pressing, possesso, velocità».
In 18 anni da giocatore ha ottenuto quattro promozioni, ora tre successi in fila da allenatore. Ha gioito più in panca...
«Da giocatore sei solo, da tecnico hai più responsabilità, incidi con scelte, mosse tattiche. Applichi le tue idee».
Non ama la musica, i film invece sì (uno in particolare...).
«La musica non mi attrae, nel tragitto casa-allenamento, in auto, preferisco ripassare mentalmente il lavoro. Prima che nascesse Jeremia, con Sandy, la mia compagna, andavamo al cinema spessissimo: film d’azione, thriller. Il mio preferito è Il Gladiatore, mi mette la pelle d’oca. Con la squadra i film li scelgo io: mi contestano sempre, ma non capiscono di cinema!».
Lei è famoso per la cura maniacale del gruppo: è vero che impone anche il cibo?
«Ho voluto un nutrizionista: ha scoperto un po’ di intolleranze alimentari nei giocatori. È stato utile».
Otto infortuni da giocatore, ai tendini d’Achille, ricadute e un’operazione sbagliata. Rimpianti?
«Ho sempre trovato la rabbia e le giuste motivazioni per ricominciare. Il rimpianto? Lo stop di Napoli: con Zeman partii benissimo, poi la mazzata. Quell’anno il torneo iniziò con un mese di ritardo, la preparazione col boemo non finiva mai. Ricordo Edmundo, mi lasciò un biglietto: “Vieni in Brasile, sarai sempre mio ospite”».
La squadra e l’annata che le sono rimaste dentro?
«Il Genoa, nel 2004-05, con Cosmi e Milito: feci 18 gol in B, record personale. Cosmi, al primo allenamento, fermò il gioco e mi disse: “Non mi serve che venga in mediana, ma che faccia gol”. Serse trasmette serenità, con lui lavori tranquillo. Salimmo in A, poi fu vanificato tutto (il Genoa fu declassato all’ultimo posto con conseguente retrocessione in Serie C per illecito sportivo: ndr)».
La carrellata dei suoi tecnici colpisce per un dato: nessuno allenerà, quest’anno, in Serie A.
«Vero, strano. Ho rubato molto a Viscidi, alla Lodigiani, ora capo scouting delle nazionali giovanili. Schemi, posizioni, tipologie di attacco: avevo 18 anni... A Lucca conobbi De Canio: preparato, serio, da sembrare un tedesco, mi ci trovai benissimo anche a Napoli, sfiorammo la A in un mare di problemi. Da Lucca a Parma, in Serie A, con Malesani, ma ero acciaccato, così andai da Sonetti a Lecce: ricordo come ci motivava, nel parlare al mio Frosinone ho preso molto da lui. Poi quattro anni a Napoli e quasi dieci allenatori: di Zeman ho un gran ricordo, non si preoccupava dell’avversario, io invece sì. Lì conobbi Scoglio, professore nel preparare la partita e le tattiche, meno col gruppo: le trasferte coi titolari in aereo e le riserve in bus, una roba impensabile. A Torino, rifondato da Cairo, vincemmo subito con De Biasi; l’ho rivisto in Albania, mi ha detto: “Non credevo proprio che tu divenissi allenatore e così vincente”. “Si cambia”, gli ho risposto, avevo 28 anni... Col Toro conobbi anche Zaccheroni: lì capii che puoi essere bravo quanto vuoi, ma se non arrivano i risultati paghi tu in panchina. A Frosinone? Ci andai grazie a Moriero, compagno ai tempi del Napoli».
Resterà fedele al 4-4-2?
«Voglio avere due punte, complementari: sono fondamentali nei 90 minuti. Preferisco la difesa a 4, anche se chiedo al terzino di salire. Uso pure il 4-3-1-2 o il 4-3-3, che mi torna utile per fare diga, divenendo 4-5-1».
Agli attaccanti chiede molto. Che cosa ci dice di Longo, soffiato a Mancini, e dei rinforzi?
«Già, la fase difensiva. Mi pregano di insegnare a fare gol a Longo ma i miei attaccanti vanno in campo pensando a vincere, non con smanie di segnare. A Longo chiedo fisicità, profondità, di fare salire la squadra e di muoversi in una certa maniera, poi che vada in doppia cifra conta poco. C’è Verde, che salta l’uomo, ha piede; Rosi e Diakité, in difesa, hanno le qualità per riprendersi il terreno perduto, il francese viene da piazze importanti e ha motivazioni. Ho Leali in porta, Chibsah con Gucher, Pavlovic sul lato. Sì, sono soddisfatto».
Chi teme di più della zona mediobassa della classifica?
«Le neopromosse di solito sono quelle che fanno meno paura ma il Bologna, per cambio proprietà ed euforia dell’ambiente, la lotta per la retrocessione non la sfiorerà nemmeno».