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 2015  agosto 27 Giovedì calendario

«ARDISCO PREGARVI DI COMANDARMI SAPENDO CHE NON POSSO NULLA»

Fanny Ronchivecchi Targioni Tozzetti (Firenze, 9 maggio 1801 - Firenze, 29 marzo 1889), nobildonna italiana moglie del medico e botanico Antonio Targioni Tozzetti, animatrice di un salotto letterario, fu uno degli amori platonici di Giacomo Leopardi (Recanati, 29 giugno 1798 - Napoli, 14 giugno 1837). A lei il poeta si ispirò per la poesia Aspasia, dissimulandola sotto le spoglie della concubina e poi moglie di Pericle. Fanny fu confidente anche di Antonio Ranieri (Napoli, 8 settembre 1806 - Portici, 4 gennaio 1888), grande amico di Leopardi e futuro senatore.

Roma, 6 agosto 1832
Cara Fanny,
Vi scrivo dunque benché siate prossima a tornare; non più per dimandarvi le vostre nuove, ma per ringraziarvi della gentile vostra di lunedì. Che abbiate gradito il mio desiderio di sentire della vostra salute, è conseguenza della vostra bontà. Mi avete rallegrato molto dicendomi che state bene, e che i bagni vi giovano, e così alle bambine, io ne stava un poco in pensiero, perché i bagni di mare non mi paiono senza qualche pericolo. Ranieri è sempre a Bologna, e sempre occupato in quel suo amore, che lo fa per più lati infelice. E pure certamente l’amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate. Pensiamo, se l’amore fa l’uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono nè belle nè degne dell’uomo. Ranieri da Bologna mi aveva chiesto più volte le vostre nuove: gli spedii la vostra letterina subito ierlaltro.
Addio, bella e graziosa Fanny. Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso nulla. Ma se, come si dice, il desiderio e la volontà danno valore, potete stimarmi attissimo ad ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e credetemi sempre vostro.
Giacomo Leopardi

QUEL «RAPPORTO A TRE» CHE MASCHERAVA UN LEGAME IMPOSSIBILE –
Ci sono lettere che dicono poco, pur parlando molto. E altre che, pur parlando pochissimo, dicono tutto. Questa - così breve, così semplice - è la seconda delle uniche due conosciute, fra quelle che Leopardi scrisse alla donna di cui era (tacitamente) innamorato. Eppure ci dice ugualmente tutto di lui. E di lei. A quanto ne sappiamo Giacomo non ebbe mai il coraggio di manifestare apertamente il proprio amore a Fanny; se non chiamandola Aspasia, nelle poesie che compongono l’omonimo ciclo. E nelle quali lei non mostrò mai di riconoscersi. Eppure, come Cyrano de Bergerac soffiava i suoi «t’amo» a Rossana mettendoli in bocca all’amico Cristiano, così Giacomo faceva con Fanny, attraverso l’amico Ranieri. Lei sapeva di piacere a Lui; e non sospettava nulla dietro le gentilezze dell’Altro. Pur rimanendo lusingata dalle sue attenzioni e, ovviamente, ammirata dal suo genio. È mai possibile che non abbia compreso il gioco implicito in questo sfumato quanto ambiguo triangolo amoroso? Che fosse completamente sincera quando, dopo la morte del poeta, candidamente chiese a Ranieri «chi era Aspasia»?. Non lo sapremo mai. Ma forse il fascino della loro storia sta appunto in questo.
Io stesso nel mio film su Leopardi, Il giovane favoloso, ho preferito rispettare i fatti, senza fantasticare supposizioni. E i fatti ci riconducono a questa lettera. Che nella sua stringata evasività fa ugualmente trasparire tutto. Tutta la distanza di lei - la sua più o meno consapevole indifferenza - e tutta l’anima di lui: la disillusione che Giacomo provò verso la vita; la certezza dell’impossibilità d’essere amato. Tutto con una delicatezza, un’eleganza, una grazia - perfino un’ironia - così inconfondibilmente suoi. Potrebbe essere più «leopardiano» il passaggio più bello (e più crudele) di tutta la lettera? «Addio, bella e graziosa Fanny. Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso nulla». Chiunque ami questo poeta avverte subito cosa si nasconda dietro il suo «non posso nulla»: la tormentosa illusione dell’amore che, pur causando infelicità, apre l’anima alla capacità di «sentire» e, dunque, di vivere davvero. Per ampiezza tematica e intensità espressiva, io trovo che l’epistolario leopardiano possa essere considerato allo stesso livello delle sue stesse opere. Esso contiene tutto il suo mondo. E con esso il valore non solo privato, ma anche universale, della sua poesia.
Perché Leopardi è uno dei pochi che - fra quelli che sono obbligati a studiare a scuola - gli studenti amano davvero? Perché lo studiano durante la loro adolescenza. E negli amori infelici, negli struggimenti malinconici di Giacomo avvertono una eco dei loro stessi amori infelici; riconoscono le loro stesse malinconie. In Leopardi l’adolescenza persistette per tutta la vita. E non tanto perché aveva solo 39 anni quando morì. Ma perché in tutti noi l’età dell’anima, della vita interiore più ardente, delle più alte temperature emotive, è proprio quella dell’adolescenza. E in lui l’adolescenza - semplicemente - non ebbe mai fine.
Mario Martone