Edmondo Peluso, Il Sole 24 Ore 26/7/2015; 2/8/2015; 9/8/2015; 23/8/2015; 30/8/2015, 26 luglio 2015
RICORDI SU JACK LONDON (26 LUGLIO 2015)
«Dannazione, prima di essere un socialista io sono un bianco!». Scuro in volto, e battendo il solido pugno sul tavolo intorno a cui eravamo riuniti, Jack London aveva l’aria di avere fornito così l’ultimo argomento alla discussione che vedeva tutti noi coalizzati contro di lui. La scena si svolgeva nei locali della sezione socialista di Oakland, in California, verso l’autunno 1904.
Jack London era appena rientrato dal Giappone, dove il gruppo Hearst l’aveva inviato quale corrispondente di guerra sul fronte russo-giapponese. Giovane milionario californiano, Hearst era un imprenditore della carta stampata fra i più potenti degli Stati Uniti. Pubblicava quotidiani in tutte le grandi città e si atteggiava a «radicale», predicando un socialismo castrato all’uso della piccola borghesia americana. Pilastri del suo impero giornalistico erano milioni di lettori.
Non per caso Hearst aveva scelto London: i suoi recenti trionfi letterari facevano di lui il più popolare fra tutti gli scrittori americani. Lo avevano munito dei migliori accrediti possibili, di un armamentario tecnico ultramoderno (tenda da campo, macchina da scrivere portatile, letto pieghevole, ecc.), soprattutto di un assegno in bianco. E Jack London era partito con l’ardore del giovane giornalista cosciente di assolvere una missione storica. Era graniticamente convinto che il primo grande massacro imperialista sulle sponde del Pacifico gli avrebbe dato modo di disegnare, con tratti magistrali, lo scontro fra i due capitalismi in lotta per la supremazia in Manciuria.
Una volta raggiunto il campo giapponese, rapidamente aveva dovuto rassegnarsi all’evidenza per cui le cose non sarebbero andate così. Lo stato maggiore aveva diligentemente preso nota delle sue lettere di accredito, lo aveva cerimoniosamente accolto con il rituale di prammatica, ma anziché trasportarlo al fronte lo aveva tenuto – fin dall’inizio – quasi prigioniero: e ben lontano dai luoghi dove andava svolgendosi l’offensiva nipponica contro l’esercito zarista. Nel giro di poche settimane, London si era reso conto che malgrado le sue proteste (e malgrado le proteste di Hearst) la linea del fronte gli sarebbe rimasta totalmente preclusa, e che i militari giapponesi si stavano educatamente prendendo gioco di lui. Li aveva dunque mandati a quel paese, e se ne era ritornato a San Francisco più che mai inferocito con i Japs.
Alla riunione della sezione, ci raccontava le sue disavventure. Sembrava divertirsi nel descrivere l’astuzia di quelle «mezze porzioni», come le chiamava, e si lanciava in infuocate arringhe contro di loro. Né la sua rabbia investiva soltanto lo stato maggiore giapponese: se la prendeva, furiosamente, con la «razza» nel suo complesso. Lasciando sconcertati i compagni che lo ascoltavano. La lotta contro l’odio razziale – e specialmente contro l’«odio dei gialli» – era allora pane quotidiano nelle sezioni socialiste della costa del Pacifico. Così, si faticava ad accettare che uno dei membri più in vista della sezione di Oakland, com’era Jack London, potesse rivelarsi un campione di sciovinismo bianco. Credendo di avere capito male, un membro della sezione gli fece presente che le classi sociali esistevano in Giappone come altrove. Un altro compagno si azzardò a indicare lo striscione appeso al muro, sopra il ritratto di Marx: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!». Ma questo, anziché indurre London a più miti consigli, non faceva che alimentare la sua rabbia.
«I militaristi giapponesi hanno reso Jack uno sciovinista», esclamò bonariamente il segretario di sezione, quando Jack se ne fu andato. Tuttavia né lui né altri si sarebbero mai sognati di chiedere una sanzione contro Jack. Ci voleva ben altro, per essere radiati dal partito! E più che mai nel caso di Jack, il fiore all’occhiello della sezione. Perché Jack London contava molto di più degli altri nostri «ospiti» occasionali, tipo Sun Yat-sen o Kotoko Shusui. E ciò malgrado il fatto che la sua attività fosse sostanzialmente nulla. Assorbito dal lavoro letterario, e incline per carattere al raccoglimento e all’isolamento, era raro che andasse al popolo come facevano le due dozzine scarse di membri militanti della sezione. Tutti in preda, chi più chi meno, alla sacrosanta passione del proselitismo.
Per agitare le masse, quasi ogni sera – meteo permettendo – la sezione al completo si trasferiva su una pubblica piazza. Ci si portava dietro uno scatolone vuoto che serviva da palco, e qualche opuscolo marxista che veniva smerciato durante i discorsi dei propagandisti. Il loro prezzo modico (5 o 10 cents) faceva sì che se ne vendessero parecchi. Raramente i proletari americani rifiutavano di contribuire con qualche centesimo alla causa socialista, anche se poi non necessariamente leggevano la nostra letteratura. Quanto ad arruolarsi nel partito, era tutt’altro paio di maniche... Per la maggior parte, il nostro pubblico era composto di operai nomadi: sterratori, taglialegna, minatori. Gli operai stabili, quelli che abitavano a San Francisco o a Oakland, venivano semmai ai meeting della domenica, in sale chiuse. Mentre i nomadi erano sempre presi dalla febbre del viaggio e dell’«oro». Quando incappavano nelle nostre manifestazioni, si fermavano ad ascoltare, non senza simpatia per la nostra causa, che era anche la loro; ma restavano imprendibili per qualunque cosa riguardasse l’organizzazione. I sedentari, invece, ci sostenevano anche materialmente, oltreché con il voto alle elezioni.
Per attirare il pubblico verso il palco improvvisato, un compagno di lungo corso saliva sullo scatolone, brandiva un giornale spiegazzato, gesticolava, indicava i titoloni in prima pagina: attirando così la curiosità dei passanti più sfaccendati. Una volta radunata la gente intorno all’oratore socialista, cominciava il meeting propriamente detto. La riunione all’aperto poteva durare anche ore, con i comizianti che si succedevano l’uno dopo l’altro e i giovani propagandisti che facevano esperienza di «lavoro pratico». A dire il vero, il loro bagaglio marxista era ultraleggero. Non c’era allora niente di simile a una scuola di partito, e di Marx e Engels – in traduzione inglese – esisteva poco o nulla. La sola opera dei grandi maestri che traducemmo tutti insieme, dietro volenterosa proposta di un veterano, fu il Manifesto comunista. Ma la guerra russo-giapponese ci offriva un campo intero di critica della società capitalistica: soprattutto, di un imperialismo americano allora allo stato nascente.
Sulla pubblica piazza dovevamo fare i conti, peraltro, con un concorrente temibile: con il grande mistificatore che nei paesi anglosassoni va sotto il nome di Esercito della Salvezza. Avevano una chiassosa orchestrina, loro, e grazie a musichette più o meno marziali riuscivano ad attirare in breve tempo un uditorio abbondante. A volte capitava che qualcuno degli uditori nostri – stufo di ascoltarci – ci mollasse per andare a sentire i «salutisti». I loro meeting cominciavano con il canto di qualche inno; dopodiché ognuno di loro si faceva avanti in mezzo al cerchio per recitare la sua professione di fede. Uomini e donne erano vestiti di un’uniforme blu scura con i bordini rossi, e portavano al braccio l’insegna del grado. Si poteva ascoltare il racconto meraviglioso del loro «salvataggio». Il vecchio ubriacone spiegava come, grazie a Gesù, si fosse salvato per sempre dalla bottiglia, la prostituta dal vizio, il ladro dal crimine, e tutti invitavano gli astanti a consacrarsi a Gesù, a seguire il cammino della redenzione. E mentre si glorificava l’operato del Signore, il capobanda sollecitava i presenti a donare l’obolo che un salutista col tamburello si affrettava a incassare.
Finché la propaganda socialista non otteneva che magri risultati, e finché gli affari dell’Esercito della Salvezza andavano meglio dei nostri, la polizia chiudeva un occhio. Ma appena iniziava un periodo di crisi economica, dunque il tasso di disoccupazione cresceva, e insomma – come nell’epoca cui mi riferisco – una certa quale effervescenza cominciava a avvertirsi nelle masse, allora iniziavano anche le persecuzioni poliziesche. I nostri raduni all’aperto venivano immancabilmente interrotti. Appena uno dei nostri oratori apriva bocca, e appena il cop di servizio gli sentiva pronunciare le parole «borghesia» e «socialismo» (le più ricorrenti nei nostri discorsi), sùbito l’oratore veniva strappato dal palco e accompagnato al furgone cellulare che attendeva la preda nelle adiacenze del meeting. Senonché fra noi vigeva l’ordine che quando un compagno veniva arrestato, un altro dovesse immediatamente salire sul palco e proseguire il comizio. Così gli arresti si susseguivano con straordinaria rapidità, e quando la Black Maria – il nome in gergo del furgone di polizia – conteneva ormai fino all’ultimo dei propagandisti, e la battaglia poteva considerarsi finita per mancanza di combattenti, procedevamo al galoppo verso la prigione. La polizia lasciava padrone del campo l’Esercito della Salvezza.
(Traduzione dal francese di Sergio Luzzatto)
1. (Continua)
IL RICHIAMO DELLA BESTIA BIONDA (2 AGOSTO 2015) – Allo scoppio della guerra russo-giapponese, la reputazione di scrittore di Jack London era già bell’e fatta. Il suo libro più recente, proprio del 1904, era Il richiamo della foresta. Il bestseller dell’anno sia negli Stati Uniti sia in Canada, più volte ristampato a centinaia di migliaia di esemplari. Ma anche un’opera che metteva fine, in qualche maniera, al ciclo che si potrebbe definire come quello dei suoi Racconti d’Alaska.
In cinque anni scarsi, London aveva sfruttato fino all’esaurimento tutte le reminescenze personali di una vita breve quanto burrascosa da schiavo salariato, da perseguitato, da avventuriero per terra e per mare. Appena adolescente – quando già la fabbrica gli aveva frantumato il corpo e l’anima – s’era ribellato, giurando a se stesso: «Non lavorerò mai più». Per reazione, s’era fatto vagabondo e con altri hobos aveva percorso l’America in lungo e in largo, sdraiato sulle assi dei vagoni merci. La borghesia americana non aveva tardato a fargli pagare con la prigione il suo amore per un’illimitata libertà fisica. Dopodiché, di ritorno a San Francisco, London s’era ficcato due cose in testa: leggere senza posa, e scrivere.
Divorò tutti i libri che gli capitavano a tiro. Autodidatta, era anche un eclettico. Si sforzava di leggere Marx, e intanto si attardava su Spencer. Ma soprattutto inclinava verso Nietzsche, sospinto dalla sua propria costituzione psicofisica, e da un amore esplicito per la forza: per la «bestia bionda», per il «superuomo» tanto vantato dal filosofo tedesco.
Nei romanzi storici, specialmente in quelli relativi al popolo anglosassone, London trovava la materia per la lotta di classe che un giorno avrebbe fatto sua; in particolare, era stato profondamente colpito dal movimento dei distruttori di macchine, i luddisti. Aveva studiato molto anche la storia della Comune di Parigi, i cui atti d’eroismo, la difesa a oltranza – da parte dei comunardi – della prima dittatura del proletariato, gli sarebbero serviti da modello storico per la sua comune di Chicago.
Come lui stesso riconosceva, Jack non trovava un ideale da seguire in nessuno scrittore americano a lui precedente o contemporaneo. Era fra gli autori stranieri che cercava un modello letterario. Ma se pure, per la forma, riusciva fortemente attratto da scrittori francesi come Balzac e Guy de Maupassant, il contenuto era lungi dal bastargli. Il loro era un mondo del passato, mentre Jack non guardava che al presente e – ancora di più – alle lotte sociali dell’avvenire. Adesso che il suo primo ciclo narrativo si era concluso, unicamente nella letteratura russa, e soprattutto in Maksim Gor’kij, trovava i soggetti, i temi, gli ambienti che gli premeva rappresentare. Oltreché ammirazione per l’arte limpida dello scrittore russo, provava simpatia per l’uomo, la cui vita aveva tanti punti di somiglianza con la sua.
I racconti del suo primo ciclo gli avevano procurato una così grande popolarità grazie al vigore con il quale aveva descritto ardite imprese e primitivi istinti dell’Americano avventuroso nel bel mezzo delle regioni artiche, o la ricerca di un qualche nuovo El Dorado dissimulato tra le sabbie tropicali della California. Aveva esaltato la forza fisica, la rivolta individuale, lo strapotere dell’Americano: una glorificazione del «superuomo» dovuta non solo alle letture nietzschiane, né solo all’ambiente entro cui l’azione si sviluppava, quanto piuttosto a uno stato d’animo subconscio dello stesso Jack London, che diventava così l’eroe di tutti i suoi racconti. Il suo inno continuo all’uomo forte aveva trovato presso la gioventù nordamericana un’eco potente, e gli aveva radunato attorno – per la massima gioia del suo editore – una cerchia assai larga di ammiratori e di lettori.
Ebbene, fin tanto che aveva potuto attingere al ricordo delle sue proprie avventure, o alla reminescenza di racconti ascoltati nel corso delle sue peregrinazioni, Jack London aveva scritto senza interruzione, facendo tesoro delle sue fonti. Ma all’epoca in cui Heart lo mandò in Giappone come corrispondente di guerra, London aveva ormai esaurito (se così si può dire) il fondo di magazzino.
Nei primi anni del Novecento le coste del Pacifico avevano conosciuto una trasformazione profonda. Finito era l’idillio californiano degli avventurieri e dei cercatori d’oro. Da città commerciale, San Francisco si era andata facendo centro industriale di primaria importanza, e porto militare. Tutt’intorno all’antica «Yerba Buena» erano cresciuti immensi cantieri navali, e le rare cannoniere che incrociavano dal nord al sud per dar la caccia ai contrabbandieri erano state rimpiazzate da mostruosi dreadnoughts: le corazzate del secolo nuovo. L’imperialismo americano aveva mostrato la lunghezza dei suoi tentacoli impadronendosi dapprima delle isole Hawaii, poi delle Filippine.
Sulla Riviera d’America – che non disponeva di industrie – prosperava tutta una borghesia commerciale, mentre la maggioranza degli operai erano artigiani qualificati, con salari decisamente più alti in confronto a quelli degli altri paesi. La lotta di classe era meno acuta che altrove, e il socialismo nascente non risuonava che come una flebile eco dell’Est industriale americano. Per contro, ciò che riusciva estremamente marcato in California era l’odio di razza. In particolare, la lotta testarda e furiosa contro i «gialli»: contro i giapponesi, e ancora più contro i cinesi. Questi ultimi formavano in effetti una colonia assai nutrita, dove una manodopera a buon mercato faceva pesante concorrenza ai salari alti degli operai qualificati americani. Ed era soprattutto questa concorrenza che rinfocolava l’odio razziale lungo le coste del Pacifico.
A tutto ciò venivano a sommarsi le competizioni imperialistiche, inaugurate dalla guerra russo-giapponese del 1904. Secondo ogni evidenza, l’Oceano pacifico stava diventando il centro della futura contesa internazionale. E Jack London – che aveva l’occhio addestrato – seguiva attentamente tali trasformazioni. Come pure notava il precipitare della conflittualità sociale all’interno degli Stati Uniti, per effetto del consolidarsi dei trusts e per l’aggressività che il nuovo capitale finanziario andava dimostrando nei confonti delle classi lavoratrici. Fu appunto in quest’epoca che decise di entrare nel partito socialista.
(Traduzione dal francese di Sergio Luzzatto)
2. (Continua)
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LA COMUNE DELLE IDEE LETTERARIE (9 AGOSTO 2015) – La casetta di Jack London a Berkeley era in tutto e per tutto una casa modesta. Ma in che posto incantato si trovava! Ovunque all’interno erano giardini dai fiori profumati e boschetti d’eucalipto, di cedri, di cipressi. E questo dentro un sole eternamente primaverile, sotto un cielo color turchese.
Jack – gli va riconosciuto – era rimasto semplice, buono e alla mano, nonostante fosse diventato all’improvviso tanto famoso quanto ricco. E nonostante avesse cambiato giro di amici, continuava ad arrotolarsi ogni sera, alla maniera dei cowboy, una cinquantina di sigarette con tabacco ordinario di Virginia. La chiamava la sua provvista quotidiana di nicotina, che gli riusciva altrettanto necessaria per lavorare dell’aria e del sole della California.
Siccome gli era fisicamente impossibile restare a lungo in un luogo chiuso, lavorava all’aperto. Partiva a cavallo, di buon mattino. Portando con sé una macchina da scrivere portatile, un seggiolino pieghevole, un plaid, e il picnic. Quando giudicava di avere trovato un posto adatto – una radura baciata dal sole, o una roccia a picco su pietre multicolori – stendeva il plaid all’ombra di un eucalipto, di un cedro rosso o di una sequoia gigante, posizionava la macchina da scrivere portatile, lasciava il cavallo libero di brucare e si metteva al lavoro.
Si era imposto come principio di avanzare secondo un certo ritmo quotidiano, e puntualmente rispettava la regola. Dapprima abbozzava su un pezzo di carta, frettolosamente, i punti principali che si proponeva di sviluppare. Poi, seduto alla macchina da scrivere, tenendo davanti agli occhi le meraviglie del paesaggio californiano, batteva sui tasti e conferiva al suo pensiero una forma compiuta. Al crepuscolo, imboccava la strada del ritorno.
Era molto ospitale e per nulla complimentoso. Quasi ogni sera, alla stessa ora, i suoi «invitati permanenti» sedevano a tavola con lui per partecipare al frugale suo pasto. Aveva effettuato una selezione tra le sue numerose conoscenze, creandosi una cerchia intima che gli serviva da voce critica e da stimolante condiviso. Erano uomini e donne raccolti da ogni campo dell’attività sociale, politica e intellettuale. Politicamente, non tutti la pensavano allo stesso modo: ma a tutti poteva applicarsi l’etichetta di radicale, che qualificava allora – negli Stati Uniti – chiunque si levasse contro l’ordine costituito.
Tra loro figurava, ad esempio, il segretario della sezione socialista di Oakland, un operaio fortemente devoto alla causa proletaria, eppure timido e bonario. Ma c’erano anche giornalisti chiassosi, inquieti e ficcanaso. Sarcastici critici d’arte. Occhiuti illustratori di riviste. Musicisti sentimentali, e social workers pieni di buone intenzioni. In questa specie di comune letteraria, ciascuno portava alla discussione la sua nota personale. Perché malgrado tutti fossero ospiti di Jack London, grazie al tatto e alla sensibilità del padrone di casa ognuno di loro si sentiva a proprio agio fin dal primo giorno, e dunque si comportava come se fosse a casa propria.
Da poco Jack aveva divorziato dalla prima moglie. Abitava con la madre, cui era legato non solo dall’amore filiale, ma dal legame particolare che unisce due esseri che abbiano traversato insieme una vita di tempeste. La madre di Jack, d’altronde, era semplice come lui. Era una vera proletaria, piccola di statura, con i capelli tagliati corti, lo sguardo triste e affaticato. Ma accogliente e generosa con gli amici di suo figlio.
Dopo la cena, che non durava mai a lungo, si passava nel fumoir. Generalmente, se nessuno suonava al pianoforte, si prendeva allora a discutere di un qualche tema d’attualità. Ma spesso Jack proponeva, come dibattito, la questione che in quel momento più l’interessava riguardo al libro che stava scrivendo. Non pochi capitoli dei suoi romanzi sociali furono discussi così, in questa cerchia intima. E una buona sorte permise a me di cascare dentro tale cerchia proprio all’epoca in cui venivano dibattuti i temi più salienti dei romanzi sociali di Jack London.
Avevo conosciuto Jack alla sezione socialista di San Francisco, di cui ero allora il più giovane dei membri. E gli avevo mostrato la mia prima fatica letteraria: gli Schizzi di California. Avevamo poi preso l’abitudine di nuotare insieme nella baia di San Francisco. E fra l’una e l’altra delle gare di nuoto cui quasi mi costringeva, perché segretamente orgoglioso di sfoggiare le sue qualità di atleta, disteso sulla sabbia, al sole, parlava di letteratura e di letterati. Gli sarebbe piaciuto conoscere meglio il mondo letterario europeo. Sul quale aveva, del resto, opinioni precise. Per la forma, trovava effettivamente inarrivabili gli autori francesi, soprattutto quelli dell’Ottocento. Per il contenuto, gli autori russi, oppressi dalla più spietata reazione zarista, gli sembravano i soli capaci di infondere nella loro opera elementi di rivolta sociale, e perciò gli parevano tali da poter servire come esempio. Un giorno che (non so più a quale proposito) stavamo parlando di Gor’kij, non senza fierezza mi disse che la critica lo aveva definito «il Gor’kij americano».
Del resto, di lì a poco London avrebbe avuto modo di testimoniare la sua ammirazione per il Gor’kij vero. Nel 1907, in occasione del viaggio dello scrittore russo negli Stati Uniti: quando tutta la piccola borghesia americana, scatenata, avrebbe assunto a pretesto il fatto che Gork’kij non fosse in regola con uno dei dispositivi della legge sull’emigrazione per rovesciargli addosso quintali di bile, e perché gli fosse impedito di mettere piede sul suolo della «libera America». Fra i rari intellettuali che avrebbero preso le sue difese, Jack London sarebbe stato il solo scrittore ad alzare la voce.
(Traduzione dal francese di Sergio Luzzatto)
3. (Continua)
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MAI PIU’ ROMANZI D’AVVENTURA (23 AGOSTO 2015) –
Poco dopo il ritorno di London dal Giappone scoppiò la rivoluzione russa del 1905.
Come corrispondente dal Giappone, Hearst aveva scelto lo scrittore più popolare degli Stati Uniti; come corrispondente dalla Russia, scelse il critico teatrale di un suo quotidiano di New York, l’«American». Era un vecchio giornalista, non privo di verve, che aveva passato la vita a criticare autori e attori. La politica non lo aveva mai interessato. Fu mobilitato da Hearst in fretta e furia, e spedito nella capitale russa con un’unica consegna: mandare al giornale il più possibile di articoli sulla rivoluzione.
Il nostro scriba giunse a Pietroburgo quando l’assolutismo tremava dalle fondamenta. Era uno spettacolo ben diverso da quello che si svolgeva sulla ribalta dei teatri. Anziché osservare la rivoluzione da un’angolatura politica e sociale, il corrispondente di Hearst si specializzò in aneddoti: alberi che gli impedivano di vedere la foresta. E tuttavia – volente o nolente – fu costretto a parlare dei principali attori della rivoluzione, e dei bolscevichi. Fu così che il nome di Lenin fece capolino per la prima volta nei giornali degli Stati Uniti.
Il pubblico americano si appassionava per gli avvenimenti di Russia. La famosa «opinione pubblica» era schierata al cento per cento contro la Russia dei Romanov, e la stampa alimentava questo sentimento generale. La borghesia americana sovvenzionava il Giappone, per comprensibili ragioni di calcolo imperialistico: i tentacoli della piovra russa erano allora più lunghi di quelli del neonato imperialismo giapponese... La «democrazia» americana si opponeva all’«autocrazia». Quanto al proletariato, condivideva l’odio universale delle masse lavoratrici contro Nicola II l’Impiccatore. E Jack London, gran divoratore di giornali, seguiva con trasporto gli sviluppi della dinamica rivoluzionaria, sulla stampa quotidiana come sui periodici.
Nella casa di Berkeley, la rivoluzione russa divenne l’argomento fisso dei dibattiti del dopocena. Ma le idee che lì si coltivavano intorno alla Russia – a parte il fatto che lo zarismo appariva a tutti come la personificazione stessa della reazione e dell’oppressione – erano le più disparate. Nella cerchia intima, ci si trovava tutto fuorché d’accordo sui princìpi attivi della rivoluzione. C’era del menscevismo, nell’entourage di Jack London. Il quale, d’altronde, se ne stava abbastanza sulle sue. Ascoltava la discussione, spesso animata, e provava a farsi un’opinione. Cercando, del resto, di informarsi anche per altre vie.
Esisteva a San Francisco una piccola colonia di emigrati russi. «Radicali», intellettuali piccolo borghesi. Tra loro era una giovane donna, Anna Strunsky, che giocò un qualche ruolo nella vita di Jack London. Se la memoria non m’inganna, lei e i suoi amici emigrati erano socialisti rivoluzionari, o per lo meno avevano legami con i socialisti rivoluzionari. Il fatto che abbiano fatto gran festa a Grigory Gershuni, quando questi – poco dopo la sua fuga dalla Siberia – passò per San Francisco, tende a confermare la mia supposizione. In ogni caso, era ad Anna Strunsky che Jack faceva ricorso per ottenere lumi sui bolscevichi. Non saprei dire come l’amica se la cavasse nel compito. Di sicuro, nel momento in cui la notizia della rivolta armata di dicembre raggiunse il Pacifico, Jack si schierò dalla parte dei bolscevichi.
Aveva seguìto la rivoluzione del 1905 con tutta la tensione del suo spirito e con tutta la passione della sua anima. Sapeva vedere la funzione crescente del bolscevismo nel corso della rivoluzione. Il tradimento dei menscevichi russi gli permise di fare il confronto con quello dei capi dell’American Federation of Labor, e quando Plechanov lanciò la sua sentenza controrivoluzionaria, che condannava la rivolta armata di dicembre, London aveva già pronta la risposta che mise in bocca all’eroe del suo romanzo Il tallone di ferro: la vittoria non può essere ottenuta che dal proletariato in armi.
La nuova via letteraria di Jack London era ormai segnata, ed era la prima rivoluzione proletaria che l’aveva tracciata per lui. Chiuso per sempre era il periodo dei suoi romanzi d’avventure artiche e dei suoi racconti d’animali. Così pure, abbandonò l’abitudine – che riconobbe sbagliata – di esaltare la rivolta individuale dello schiavo salariato e dell’oppresso in generale. Smise di agitare (come aveva fatto in alcune sue opere) l’idea di sfuggire al lavoro, e di cercare un rimedio all’oppressione capitalista nel vagabondaggio o nell’avventura: ammise che una fuga del genere non rappresentava una soluzione al problema della lotta di classe.
Fu l’eroico esempio del proletariato russo a indicargli l’unica strada da seguire, l’unico mezzo per giungere all’emancipazione sociale e, di conseguenza, all’emancipazione individuale di ciascun oppresso: la rivolta del proletariato in armi, sotto la direzione di un partito risoluto, sperimentato, e forgiato dalla lotta.
A partire da questo momento, Jack London si dedica anima e corpo al romanzo sociale. La sera, nelle «discussioni marxiste» che si svolgono da lui, ascolta, dirige, tira le fila di dibattiti appassionati. La migliore delle sue opere, Il tallone di ferro, nasce come ispirata dal vento rivoluzionario russo che soffia allora da un capo all’altro del mondo.
(Traduzione dal francese di Sergio Luzzatto)
4. (Continua)
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UN MATRIMONIO ASFISSIANTE (30 AGOSTO)
Anche in America si apriva una nuova epoca storica. La concentrazione dei capitali andava operandosi rapidamente all’ombra dell’imperialismo yankee, mentre la massa lavoratrice, via via più sfruttata, e la piccola borghesia, sempre più allarmata dal dominio assoluto della plutocrazia, cercavano di contenerne l’espansione. Il socialismo americano faceva la sua prima timida comparsa sulle coste del Pacifico. Iniziò allora una campagna di stampa in grande stile, sui quotidiani e sulle riviste, che aveva per bersaglio il capitalismo finanziario americano.
Editori intraprendenti aprivano le colonne dei loro periodici alle «rivelazioni» sulla favolosa accumulazione dei trusts. Inoltre, si «indagava» sull’origine delle grandi fortune americane. All’interno della gran massa dei lavoratori d’America, il solo strato aristocratico degli operai qualificati, cristallizzato nell’American Federation of Labor, ricavava vantaggi evidenti da una congiuntura di boom economico. E il tradimento dei capi dell’AFL finì per essere così trasparente da riuscire impudente: capi che si vendettero al Tallone di Ferro, si arruolarono (come John Mitchell) nella sua milizia, oppure – grazie a provvidenziali «sussidi» – divennero rapidamente milionari.
Jack London guarda al 1905 attraverso la lente di ingrandimento americana. Trasporta sul suolo americano gli insegnamenti del 1905, limitandosi ad aggiungervi tutta la cattiveria di cui la borghesia americana è capace quando si tratti di difendere interessi di classe. Mette allo scoperto – nel Tallone di ferro – l’intero meccanismo della repressione governativa americana. Dà plasticamente forma all’attività controrivoluzionaria dei leader dell’AFL. Al tempo stesso, si leva contro le illusioni e contro l’opportunismo dei socialisti, contro il loro cretinismo parlamentare e democratico. Come potete, gli domanda, sperare in una pacifica vittoria attraverso le urne? Il Tallone di Ferro sopprimerà quanto resta delle ultime libertà. Il Tallone di Ferro vi schiaccierà senza pietà. E l’eroe del romanzo griderà ai socialisti, rimasti democratici inveterati: «Non c’è altra via che una rivoluzione di sangue».
Jack London era in anticipo sul suo partito – il partito socialista americano – che unicamente si preoccupava dell’aumento di schede socialiste negli appuntamenti elettorali. Ogni qual volta, nel libro, un riformista inneggia alla vittoria parlamentare prossima ventura, Jack London gli fa replicare: «Quanti fucili avete? Quante cartucce possiamo procurarci?». E se pure, quando l’eroico proletariato di Mosca venne inesorabilmente schiacciato dalla spedizione punitiva zarista, London dovette riconoscere quanto sia arduo il cammino che conduce alla vittoria, nondimeno fece sua la risposta di Lenin a Plechanov: conservò l’ottimismo, non smise di confidare nella vittoria finale del proletariato. Jack London riassume in due frasi le prospettive rivoluzionarie dopo la disfatta: «Questa volta siamo stati battuti, ma non siamo stati vinti... Abbiamo molto imparato, e domani il proletariato tornerà a sollevarsi, più forte, armato di maggiore esperienza e disciplina».
Nel Tallone di ferro vengono ripresi quasi tutti gli episodi della «prova generale» del 1905, e applicati al contesto degli Stati Uniti. Il menscevismo, le «cinture nere», il sistema dei passaporti, gli agenti provocatori, i gruppi terroristi. Il contadino americano stroncato dai grandi cartelli agrari che rimpiazzano il vecchio proprietario terriero, la lotta gigantesca tra le due forze sociali contrapposte, la tecnica americana (anziché zarista) di repressione a Chicago (anziché a Mosca), che allo sguardo degli operai incarna il loro inferno capitalistico. Tutto ciò conferisce al romanzo un’impronta di matrice americana, laddove – in realtà – il modello è russo. Risultato: un libro possente, e ancora senza uguali nella letteratura del nuovo continente.
Con Il tallone di ferro Jack London raggiunse il punto culminante della sua carriera e della sua arte. Fu talmente ispirato dal vento della rivoluzione, che il suo stesso talento di scrittore andò scemando a misura che andava attenuandosi l’eco del 1905. Peraltro, alla caduta di London contribuì la nuova direzione che volle imprimere alla sua vita. Si risposò. E il dibattito aperto, il giudizio collettivo della cerchia intima, cedettero il campo al tête-à-tête con la nuova moglie.
Gli amici si dispersero, mentre le sue apparizioni alla sezione socialista di Oakland vennero diradandosi sempre più. Prese a isolarsi, e cominciò presto a soffrire di tale isolamento. Più crescevano la sua popolarità e la sua gloria – e più crescevano, di riflesso, le formidabili sue royalties –, più incombeva su di lui il pericolo massimo per uno scrittore: la sterilità. Responsabile del crollo intellettuale di un uomo sino ad allora così fecondo, la sterilità costituì anche la causa principale della sua prematura scomparsa.
Spesso io mi sono chiesto a chi o a che cosa si debba imputare la rovina spirituale e fisica di questo giovane scrittore dal cervello tanto lucido e dalla muscolatura tanto potente. Per me, non c’è alcun dubbio: Jack London fu vittima dell’ambiente capitalistico. Conseguita grazie al talento e grazie al successo di opere divenute ultrapopolari, la rapidità stessa della sua ascesa fu tale da consegnarlo come una preda all’avidità degli affaristi. La borghesia americana – nella persona dell’editore di London – aveva fatto di lui, in qualche modo, un artigiano da sfruttare. In poco più d’un decennio di attività letteraria, il capitalismo spremette da lui milioni di dollari di profitti, inaridì la sua vena di scrittore rivoluzionario, arginò il suo slancio, lo deviò dalla sua strada. Come dimostrano bene le ultime sue opere.
Una parte di responsabilità va attribuita anche a Jack. Aveva spinto troppo oltre la sua inclinazione all’isolamento, finendo per perdere ogni contatto con la massa proletaria. Perché – alla fin fine – non era certo dal fondo della California incantatrice, dove la natura e gli uomini parevano vivere in uno stato eterno di pace, che lo scrittore poteva attingere, con la sola forza dell’immaginazione, temi e soggetti dell’implacabile lotta di classe. L’ispirazione rivoluzionaria, non poteva trovarla che in mezzo alle folle industriali dell’Est: a New York, a Chicago, a Pittsburgh, dove la guerra sociale raggiungeva un parossismo di ferocia.
Là sì, London avrebbe potuto trovare di che moltiplicare per dieci la sua energia; là avrebbe trovato nuovi strumenti per un’opera feconda. Ma ogni giusta comprensione del ruolo dello scrittore rivoluzionario sfuggì alla sua portata nel quotidiano tête-à-tête con Charmian, la sua nuova moglie: una tipica rappresentante della piccola borghesia americana. Così, Jack finì per insabbiarsi definitivamente. La sua fiamma creativa, che aveva brillato come una meteora, si spense dopo una breve traiettoria. L’impiego di eccitanti d’ogni sorta, anziché ravvivare il suo spirito, più rapidamente ancora lo soffocò. E il corpo d’atleta dai muscoli d’acciaio s’abbatté a sua volta, vecchio appena di quarant’anni.
(Traduzione dal francese di Sergio Luzzatto)
5. Fine
Pubblichiamo la quinta e ultima puntata di un testo inedito in italiano uscito nel 1934 sulla rivista francese «Commune» per mano di una figura oggi dimenticata della sinistra di primo Novecento: Edmondo Peluso. Il contesto del racconto è quello californiano del 1905: la baia di San Francisco, dove sia Peluso sia London militavano nel locale Partito socialista, e dove arrivavano gli echi della rivoluzione russa.