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 2015  agosto 23 Domenica calendario

LA LEZIONE DELLA GRECIA, L’EUROPA E NOI

Sul futuro della Grecia, e quindi dell’Europa, i pareri divergono. Gli ottimisti pensano che ormai siamo entrati in una fase di stabilizzazione, e che i prossimi anni serviranno alla Grecia per modernizzarsi, e all’Europa per correggere le sue regole di funzionamento, che così cattiva prova di sé hanno dato in questi anni. I pessimisti, invece, pensano che l’ultimo salvataggio sia solo servito a comprare tempo, e che i nodi che non sono stati sciolti in questi mesi di estenuanti trattative si ripresenteranno al più presto. La decisione di Tsipras di andare a nuove elezioni, annunciata giovedì scorso, e il piccolo temporale finanziario che si è scatenato sui mercati subito dopo, tra giovedì e venerdì, sembrerebbero indicare che le preoccupazioni dei pessimisti non siano infondate. È ragionevole pensare, infatti, che l’implementazione delle riforme promesse non sarà indolore, che vi saranno continue resistenze e marce indietro da parte greca (alcune già emerse, sulla vendita dei porti ad esempio), e che ad ogni tira e molla i mercati dei titoli di Stato reagiranno più o meno come hanno fatto in questi ultimi 5 anni.
Esiste infatti un ben consolidato meccanismo, uno schema preciso, che governa l’andamento dei rendimenti dei titoli di Stato. Quando i mercati sono tranquilli, i rendimenti dei vari Paesi dell’Eurozona evolvono in modo parallelo, seguendo gli impulsi dell’economia e delle autorità monetarie. Quando i mercati sono in allarme, perché uno o più Paesi attraversano una crisi finanziaria, si crea invece una divaricazione, una sorta di split: i rendimenti richiesti ad alcuni Paesi, percepiti come a rischio, si alzano, mentre i rendimenti di altri Paesi, percepiti come sicuri, si abbassano. È esattamente quello che è successo fra giovedì e venerdì scorso, dopo l’annuncio delle elezioni anticipate in Grecia: i rendimenti dei titoli ellenici sono saliti di 19 punti base, mentre quelli della Germania sono scesi di 6.
Il punto interessante, però, non è di sapere che cosa è successo agli estremi, ossia nel Paese più affidabile (Germania) e in quello meno affidabile (Grecia). Il punto chiave è: quali Paesi hanno seguito la Grecia, e quali si sono comportati in modo simile alla Germania?
Ebbene, la risposta è che i rendimenti sono discesi non solo in Germania ma anche in Belgio (-4), in Francia (-2) e persino in Irlanda (-2), un tempo annoverata fra i Paesi a rischio. Mentre sono saliti in Portogallo (+5), in Italia (+4) e in Spagna (+2). La mini-turbolenza partita dalla Grecia, in altre parole, si è propagata ai paesi a rischio, mentre ha finito per fornire sollievo non solo alla Germania ma anche agli altri Paesi percepiti come affidabili.
Si potrebbe credere che questo schema, e la relativa bipartizione dei Paesi in Paesi a rischio e Paesi affidabili, sia relativamente volatile, e che quel che è successo negli ultimi due giorni faccia storia a sé. Ma non è assolutamente così. Negli ultimi 5 anni, ossia dalla crisi del 2011, le cose sono andate sempre nel medesimo modo, in occasione di ogni tempesta finanziaria, e l’unico cambiamento importante – l’unica rottura dello schema – è stato l’uscita (nel 2013) dell’Irlanda dal gruppo dei Paesi a rischio.
Se le cose stanno così, la situazione dell’Italia non appare affatto rassicurante. In concreto, il meccanismo dello split significa questo: uno Stato sovrano può anche attraversare un lungo periodo di denaro a buon mercato, ma questo non lo esime da un brusco aumento dei rendimenti non appena si manifesti una crisi finanziaria, anche se essa dovesse provenire da un Paese differente. Se lo Stato fa parte del gruppo dei Paesi percepiti come a rischio, la crisi lo contagerà; altrimenti no, anzi potrebbe persino favorirlo (vedi la Germania nei momenti peggiori della crisi dell’euro).
Da questo punto di vista è arduo non vedere con una certa preoccupazione gli orientamenti del nostro governo in materia di conti pubblici. Già il fatto di aver, per ben tre volte, spostato avanti di un anno il pareggio di bilancio (prima dal 2015 al 2016, poi al 2017, e ora addirittura al 2018, allorché l’attuale governo non sarà più in carica), non ha certo contribuito a migliorare la percezione dell’Italia sui mercati finanziari. Ma ancora più inquietante appare la sproporzione fra l’ammontare delle promesse e la possibilità di coprirle con tagli di spesa. La richiesta all’Europa di “ulteriore flessibilità” significa, in buona sostanza, che ancora una volta si punta a coprire le spese facendo deficit, e che anche nel 2016 il rapporto debito/Pil finirà per aumentare (per rendersene conto basta confrontare la velocità di crescita del debito con quella del Pil nominale: secondo gli ultimi dati disponibili il primo galoppa oltre il 2%, il secondo arranca sotto l’1,5%).
Tutto questo potrebbe non preoccuparci ove l’Italia fosse già entrata a far parte del club dei Paesi percepiti come affidabili, come l’Irlanda a partire dal 2013. In tal caso i nostri conti pubblici sarebbero relativamente al sicuro, e i rischi di contagio non dovrebbero assillarci troppo. Ma non è questa la situazione, sfortunatamente. Ammesso che esista, e non sia una illusione di chi ci governa, l’affidabilità dell’Italia è limitata al piano della politica, e nella migliore delle ipotesi ci regalerà il permesso di sforare di qualche decimale di Pil nei conti pubblici del 2016. Sul piano dell’economia, la patente di affidabilità dobbiamo ancora conquistarcela, come si vede dall’andamento dello spread ogni volta che c’è maretta sui mercati finanziari. Per quel tipo di patente dovremo ancora aspettare, e non è detto che rimandare il risanamento dei conti pubblici sia la scelta più saggia per abbreviare l’attesa.