Nicola Lagioia, GQ 24/8/2015, 24 agosto 2015
SORPRESA HO VINTO IO
[Nicola Lagioia]
«Fai quel che devi, succeda quel che può». È questo il mantra che mi ha accompagnato non negli ultimi due mesi – quelli durante i quali si è consumata la partita del Premio Strega – ma per anni, tutti quelli che ci sono voluti per immaginare, abbozzare, scrivere e riscrivere fino allo sfinimento un romanzo intitolato La ferocia. Al momento di varcare le porte del Ninfeo di Villa Giulia, il 2 luglio, ho pensato che l’unica partita vinta o persa di uno scrittore si consuma sulla pagina. I premi non migliorano ciò che hai fatto, ma hanno il potere ingiusto, quanto magnetico e umanamente irresistibile di dargli un riconoscimento.
Un anno prima, al momento di consegnare il testo definitivo all’editore, mi ero costretto a verificare sul computer la presenza di ben 128 file intitolati Ferocia, il che significa che questo libro è stato ripensato – fosse anche per piccoli dettagli – un centinaio di volte. Ne era venuto fuori un romanzo di quattrocento pagine sulla rovina di una potente famiglia del Sud, un libro oscuro, per certi versi disturbante, non destinato al grande pubblico, e tantomeno all’agone di un premio come lo Strega.
Invece, a poche settimane dall’uscita, questo romanzo strano, nerissimo e totalmente “fuori formato” rispetto a quelli di successo, aveva fatto capolino nella classifica dei libri più venduti (non certo ai primi posti) spiazzando sia me che l’editore. Tre mesi dopo era stato ristampato già cinque volte, ed erano arrivate richieste per traduzioni estere. Io, a mia volta, ero partito per un lungo giro di presentazioni. Insomma, i galloni per ambire a un palcoscenico più ampio ce li stavamo guadagnando sulla strada.
Così, coi primi caldi, il mio editore mi ha chiesto se «per caso» avrei voluto partecipare al premio Strega, sempre che Einaudi avesse deciso di andarci. Per essere precisi, la domanda è stata: «Parteciperesti allo Strega, sapendo che non vinceremo mai?». E io: «Non vinceremo mai?». Mi fu spiegato che c’erano più probabilità che Harper Lee pubblicasse un nuovo libro. Accettai.
Il mio intento non era vincere, ma far fare al romanzo più strada possibile. Ci avevo messo cinque anni a scriverlo, avevo fatto migliaia di chilometri per farlo conoscere in giro, e lo Strega nel peggiore dei casi avrebbe allungato la corsa ancora un po’.
Ufficializzata la candidatura, mi sono presto reso conto che, quando a impazzire non sono gli scrittori che partecipano allo Strega, rischia di farlo chi gli sta intorno. A poche settimane dalla cinquina, mi capitava sempre più spesso di incontrare gente sovraeccitata che mi puntava il dito: «Me raccomando, je devi fa’ er culo a tutti!». Oppure: «Non vedo l’ora che la Ferrante ti faccia il culo». Tutto questo, nonostante il sentimento di grande rispetto che provavo e provo per il lavoro degli altri candidati.
Il 10 giugno, giorno della cinquina, sono arrivato a casa Bellonci abbastanza a cuor leggero. Altri autori erano dati per favoriti, e se non hai niente da perdere ti puoi godere il momento. Sono uscito da quella casa preoccupato: La ferocia era stato il libro più votato, e dunque qualcosa da perdere adesso ce l’avevo. Come iniziarono a scrivere i quotidiani dal giorno dopo, ero diventato il favorito.
Ho trascorso al Lido di Venezia le settimane che separano la cinquina dalla serata finale, isolato, lontano dal frastuono, a lavorare come selezionatore per la Mostra del cinema. Sveglia alle sei, corsa sul lungomare con Dylan e gli Arcade Fire in cuffia, poi alle nove pronto a spararmi dieci ore di film.
Al Ninfeo sono arrivato con le immagini del Des Bains in ristrutturazione (La morte a Venezia è ambientata lì) negli occhi. Dopo il secondo giro di votazioni ho dovuto accettare il fatto che si metteva bene – il mio terrore era dover resistere emotivamente ai testa a testa di alcune edizioni recenti – e quando mi hanno proclamato vincitore ho sentito un moto di gioia salirmi dallo stomaco dentro il quale, due minuti dopo, stavo versando il liquore bevuto a canna. Poi, nell’euforia, ho fatto la mossa che nessuno credo abbia mai osato: chiamare mia moglie sul palco, e far bere lo Strega anche a lei, e baciarla circondati da telecamere e fotografi.
Sono seguiti i festeggiamenti, e momenti piacevoli non raccontabili. Il problema è cominciato il giorno dopo. Ero da solo a casa, e il telefono suonava ininterrottamente. Arrivavano sms e WhatsApp senza sosta, lo smartphone è collassato sintonizzandosi sul fuso orario di San Paolo, che oltre a essere un quartiere di Bari è una città brasiliana. Non sapevo nemmeno più che ora fosse. La mailbox traboccava di messaggi, e solo a guardare Facebook mi veniva da piangere. Avevo insomma sottovalutato l’onda d’urto in caso di vittoria.
Compresi i lati positivi, tipo la ristampa immediata de La ferocia in un numero di copie che i miei tre libri precedenti non avevano venduto, tutti insieme, in dieci anni. Per non parlare di ciò che gli altri iniziano a vedere in te, se il dito del successo ti tocca anche solo per un attimo.
Come ho scoperto leggendo quotidiani, riviste on line e social network, ero diventato un grande scrittore o un grande bluff, l’autore di una mossa sacrosanta (subito dopo la vittoria, parlando con i giornalisti, è venuta fuori la questione della Grecia) o di un terribile scivolone perché chi scrive romanzi non deve occuparsi di politica, uno scrittore finalmente vestito bene (ero in giacca e cravatta) o uno che vuole farsi notare, un outsider o un furbacchione. Qualunque cosa potessi dire nei giorni seguenti per smentire («Non sono io quel grande autore e non sono l’impostore di cui parlate!») era inutile perché stavo sperimentando su scala ridotta ciò che per gli uomini di spettacolo è la quotidianità. Non so come facciano loro, ma fortunatamente per la letteratura tutto torna presto su binari assai ordinari, il che (se ciò che ti interessa nella vita è scrivere) è solo un vantaggio. E poi morto uno Strega se ne fa un altro. L’anno prossimo il cerchio dell’attenzione si starà stringendo intorno a un altro autore, e per quel tempo mi auguro di essere alle prese già da un pezzo con il mio nuovo romanzo.