Marco Cicala, il Venerdì 21/8/2015, 21 agosto 2015
ANATOMIA DI UN INGANNO
[Javier Cercas]
LAÇÀ (CATALOGNA). Quando fu smascherato, Enric Marco era un arzillo ultraottantenne con baffi e capelli tinti, ma un curriculum di quelli che lèvati: combattente antifascista nella guerra civile, oppositore sotto la dittatura di Franco e soprattutto ex deportato, recluso nel campo di Flossenbürg, Baviera. Perciò lo avevano fatto presidente della Amical de Mauthausen, la principale associazione spagnola di sopravvissuti alle grinfie naziste. Marco era il nonno partigiano che quasi chiunque avrebbe voluto avere. Come ricorda Mario Vargas Llosa in un articolo che qui pubblichiamo, nella primavera del 2005, propino a Mauthausen, il vegliardo si preparava a pronunciare un discorso a 60 anni dalla liberazione del lager. Ma venne fermato. Capirete: ravanando negli archivi, uno studioso aveva dimostrato con prove irrefutabili che Enric Marco non era mai stato rinchiuso in un campo di concentramento. In Germania era andato, ma da lavoratore volontario per sfuggire alla naja.
Il bello – ammesso che nella fattispecie ci si possa esprimere così – è che Marco non aveva mentito solo sulla deportazione, ma su tutto: s’era taroccato in blocco la biografia da resistente. Ora, a smantellare una per una le bufale di don Enric non è stato però uno storico, ma lo scrittore Javier Cercas. Il suo ultimo libro, L’impostore (Guanda), è un’immersione temeraria nell’affaire. «Appena scoppiò il caso avvertii che non era soltanto una storia fenomenale, ma che racchiudeva per me qualcosa di importante, anche se non per forza gradevole» dice Cercas in un ristorante dell’Ampurdán, la campagna a un centinaio di chilometri da Barcellona dove da qualche tempo si ritira a scrivere.
El impostor è il suo libro più coraggioso. Perché usa la parabola del ciarlatano per addentrarsi in territori minati che riguardano l’attendibilità della memoria storica, i limiti etici della scrittura e il quoziente di menzogna che riposa in ognuno di noi. Alzi la mano chi non si è mai indorato la biografia almeno un po’. Per decifrarne la personalità, Cercas ha trascorso con Enric Marco giorni di conversazioni in bar e trattorie, di passeggiate per Barcellona, di interviste filmate o audioregistrate. Avevano stretto un patto: «Gli ho detto che avrei raccontato la verità. Lui mi ha assicurato che mi avrebbe aiutato a cercarla. E lo ha fatto. Ma senza rinunciare a qualche inganno».
Marco vampirizzava i ricordi dei veri deportati, si iscrisse alla facoltà di storia per rendere più plausibili i suoi racconti. Quale fu però il segreto della sua forza di persuasione?
«È uno degli interrogativi del libro. Le risposte sono parecchie. Innanzitutto c’è stata la sua straordinaria verve istrionica. Marco è il Picasso, il Maradona dell’impostura. Ci vuole talento, forse genio, per mentire a quel modo sui lager, il maggior crimine nella storia dell’umanità. Ma se ci è riuscito è anche perché ha raccontato alla gente quello che la gente voleva sentirsi dire».
In che senso?
«Il pubblico non chiede verità, ma versioni tranquillizzanti della verità. E i ricordi di Marco questo erano: narrazioni sentimentali, edulcorate, manichee dell’esperienza concentrazionaria».
Lei lo chiama kitsch storico.
«Come un tempo nell’arte o nella letteratura, anche nella memoria di certe tragedie novecentesche ha preso piede una tendenza a raccontare il passato omettendone gli elementi spiacevoli, opachi, imbarazzanti, e spingendo invece sull’enfasi, l’eroismo di maniera, la ricerca dell’effetto, il ricatto emotivo. Ci aggiunga che Marco ha avuto gioco relativamente facile perché, rispetto ad altri Paesi, la Shoah e la deportazione sono state per gli spagnoli una realtà numericamente esigua e perciò non troppo studiata».
Alla popolarità del personaggio diedero una grossa mano i media. Marco era amatissimo dai giornalisti.
«Lo adoravano. Sa, la maggior parte degli ex deportati sono persone anziane che si esprimono poco e male. Mentre con la sua parlantina lui era diventato una specie di rockstar della memoria. Ai cronisti bastava accendere il registratore o la telecamera e hop! Marco si lanciava in racconti che sembravano cariche di cavalleria: avventure, sentimenti forti, eroismo a fiumi... Lalà Lalààà (mimando il gesto del violinista. Cercas canticchia la musica di Via col vento)».
Il discorso enfatico, la memoria-pompier saranno pure un indizio di falsificazione, ma non certo una prova.
«Chiaro. Tant’è vero che persino qualche autentico deportato cade nel kitsch. E anche gli storici possono restarne irretiti. I cattivi storici, quantomeno».
Claudio Magris scrisse che, seppur mentendo. Marco aveva contribuito a far conoscere la realtà dei lager.
«Era un bellissimo intervento. Ma non lo condivido. Primo perché in mezzo alle verità di Marco c’erano bugie, e la bugia è come una goccia di veleno nell’acqua: finisce per contaminare tutto. Secondo perché, ripeto, fornire dei fatti una versione rassicurante significa tradirli. Vede, in Primo Levi non c’è la minima traccia di kitsch. Casomai il contrario: un’autocritica feroce di chi è vittima».
Nel libro lei smonta la retorica della vittima elevata a eroe.
«Le vittime meritano compassione, ma non sono sempre eroiche. È un eroe Imre Kertész, quando, a 15 anni, viene caricato su un camion mentre passeggia per Budapest e poi spedito ad Auschwitz? E i poveretti dei gulag descritti mirabilmente da Šalamov, erano eroi loro? No, erano vittime, disgraziati come me e lei finiti lì senza volerlo. Per me l’eroe è un altra cosa. È uno che agisce, che dice No quando tutti dicono Sì».
Lei se la prende anche con la sacralizzazione del reduce, del testimone.
«Mi chiedo: per il solo fatto di essere testimone un uomo detiene la verità storica? No. La memoria dei testimoni è utilissima, necessaria, ma insufficiente. Nel libro riprendo il famoso esempio di Fabrizio Del Dongo che nella Certosa di Parma partecipa alla battaglia di Waterloo senza capirci un tubo. Vede solo caos, frammenti di realtà, Napoleone gli passa davanti e lui quasi non se ne accorge. I ricordi di un testimone sono fragili, fallibili, parziali, mentre una ricostruzione storica dovrebbe essere il più possibile oggettiva e rimettere un po’ d’ordine. Per questo l’espressione Memoria storica non mi piace. La memoria è un fatto individuale, la Storia è collettiva».
In epoca Zapatero, per Memoria historica si intendeva il processo di riabilitazione del passato repubblicano. Nobile proposito. Perché si concluse in un flop?
«Perché la memoria divenne moda. Un’industria dove, ancor prima che economici, i profitti erano politici, morali, simbolici. Vede, all’inizio degli anni Duemila si è sviluppato in Spagna un movimento assolutamente indispensabile e giusto che voleva affrontare una volta per tutte il passato di questo Paese, portare a termine quanto la Transizione democratica aveva lasciato a metà, risarcire le vittime e ripensare criticamente l’epoca della dittatura. Ci si diceva: possiamo continuare a vivere con migliaia di resti ammassati nelle fosse comuni? No. Possiamo ritrovarci il sacrario fascista della Valle de los caídos o piazze e strade ancora intitolate a generali golpisti? No, no podemos».
Poi come andò a finire?
«Finì che quell’esigenza sacrosanta venne strumentalizzata dalla politica. La sinistra, Zapatero – che io ho votato due volte – la usò per infastidire la destra e trarne benefici elettorali. Risultato: tutto è rimasto come prima. Abbiamo ancora le fosse, Los caídos, le strade dedicate ai fascisti. Con la destra al governo la questione è congelata. La sinistra tornerà a tirarla fuori quando le farà comodo».
Nella vicenda di Enric Marco lei vede sintetizzati trucchi e capriole di chi durante la Transizione si affrettò a rifarsi un pedigree democratico.
«Morto il dittatore, tutti corsero a riscriversi una biografia da antifranchisti. Ma pochissimi lo erano davvero. Va sempre così quando finisce un regime. Però Marco è proprio l’emblema di quest’accidenti di Paese. È l’uomo della maggioranza, quello che non protesta, che segue la corrente, che fiuta da che parte tira il vento e si accoda. Marco arriva in Germania quando il Reich sta per vincere la guerra e se ne va quando sta per perderla. Marco si avvicina all’anarchismo quando, al crepuscolo della dittatura, la dissidenza libertaria sta tornando in voga. In seguito annusa che la memoria dei lager si prepara a diventare una moda e ci si ficca dentro».
Falsificando tutto. A cominciare dalla data di nascita.
«Diceva di essere venuto al mondo il 14 aprile del 1921. Esattamente dieci anni prima della proclamazione della Seconda repubblica spagnola – ripeteva. Invece è nato il 12».
Nel manicomio in cui sua madre era rinchiusa e nel quale morì. Sin da ragazzino la vita di Marco è picaresca.
«E molto più interessante di quella che si inventò!».
Però troppo prosaica. Da qui la grande fuga nella fanfaluca. «La realtà uccide, la finzione salva» si dice nel libro. Ma pure il contrario rischia di essere vero.
«Come Nietzsche, Eliot sosteneva che l’essere umano non può sopportare troppa realtà. La finzione è un antidoto. Anche lei però può uccidere. Marco se ne è fatto divorare».
Nella prima riga lei confessa: «Io questo libro non volevo scriverlo». Perché?
«Mi chiedevo: che diritto ho io di svelare certi aspetti di una persona, cose che lui ha nascosto alla moglie, alle figlie? Se il tuo personaggio è in vita, la questione è delicata. Truman Capote era diventato amico dei due assassini protagonisti del suo romanzo verità A sangue freddo. Però in segreto pregava la Madonna affinché venissero condannati a morte. Perché sarebbe stato il finale perfetto del libro. Secondo Emmanuel Carrère, così facendo Capote si salvò come scrittore ma si dannò come essere umano. Per evitare di patteggiare col diavolo, Carrère scelse di scrivere un’altra storia vera e cruenta – quella del suo romanzo L’avversario – includendosi nel racconto, rivelando i propri dubbi e i rapporti personali con l’assassino. Ma forse anche questa è un’astuzia per dribblare un dilemma morale che persiste».
Lei ha interrogato Enric Marco ben oltre il terzo grado, ma in uno dei capitoli finali el impostor contrattacca e mette sotto accusa Javier Cercas.
«Sì, mi dà del vigliacco, del piccolo-borghese, del perbenista attaccato ai meschini valori della decenza, della verità. Come un eroe amorale, nietzscheano, rivendica il primato della vita, del desiderio, dell’autoaffermazione a dispetto di tutto. Mi dice: Del resto anche tu, in quanto scrittore, usi la finzione, la menzogna per farti bello. Tu sei come me. Quel dialogo è il cuore del libro, la prima cosa che ho scritto anche se poi l’ho messa in fondo. Naturalmente è ironico e del tutto inventato. È un duello immaginario con la mia cattiva coscienza nel quale Marco si vendica, diventa il mio Super-Io. Nell’economia del romanzo pensavo che lui avesse diritto alla difesa».
Lo definisce romanzo senza finzione.
«Di finzioni ne aveva già inventate abbastanza Enric Marco. Aggiungerne altre sarebbe stato ridicolo».
A un certo punto, mentre lei demolisce le sue frottole, Marco la implora di non distruggerle tutte: Por favor, déjame algo. Lasciami qualche bugia a cui aggrapparmi. Gliel’ha detto davvero?
«Sì».
È un momento toccante. Il grande manipolatore sembra infine nudo.
«Aveva mentito su tutto. Il mondo gli crollava addosso. Qualcuno ha detto che Enric Marco aveva finito per smarrirsi nel labirinto di specchi delle sue bugie, per credere all’alter ego eroico che si era costruito. Non penso che sia un’interpretazione giusta. Lui si immedesimava nel personaggio finché rimaneva in scena. Ma ere consapevole di stare mentendo. Sapeva chi era davvero, che sotto il Marco di cartapesta ce n’era un altro».
Non lo fece per soldi.
«No. L’ha fatto perché è un narciso pazzesco. E, al contrario di quanto si crede, il narcisista non è uno che si adora, ma si odia al punto da dover fabbricare un’immagine attraente di sé. Marco voleva sedurre. Essere amato».
Come ha reagito al libro?
«Lo ha letto e sono sicuro che l’ha capito. Era nei patti che lo leggesse prima, per correggere eventuali errori. Ma non mi ha corretto assolutamente nulla. Però non gli è piaciuto».
Perché?
«A una radio ha detto che lo avevo ingannato. Ma non ha spiegato come».
Oggi ha 94 anni. Che fa? Vi sentite?
«È rimasto vedovo. Non parla con la stampa. No, non siamo più in contatto. Io non nutro alcun rancore verso di lui, né lui verso di me, credo. Dal mio libro si aspettava che fosse un’agiografia, un’assoluzione. Ma la letteratura non deve assolvere né condannare. Al limite, farti capire come funzionano certe cose spiacevoli. E, se va bene, generare compassione anche per i tipi più riprovevoli. Ma solo i grandissimi ci riescono. Shakespeare con Riccardo III, Dostoevskij con Raskolnikov...».
Lei ha detto: Come essere umano sono ragionevolmente codardo, ma nella scrittura non posso esserlo.
«Sono d’accordo con me stesso (ride). Uno scrittore vigliacco è un ossimoro, come un torero vigliacco. Devi cercare la verità a costo di scoprire brutte cose su di te. E cos’è Marco se non un’iperbole mostruosa di quello che tutti siamo?».
Con qualcosa di chisciottesco.
«Sì e no. Chi è Don Chisciotte? Un hidalgo sfigato di nome Alonso Quijano che per sfuggire alla mediocrità della vita in un paesello di merda si inventa un’identità eroica. Diventa Quijote e va fuori di testa. Ma poi rinsavisce. E alla fine Cervantes lo salva. Nel momento della morte lo riconcilia con se stesso, con l’uomo che è nella realtà. Veramente muore e veramente è sano di spirito Alonso Quijano il Buono, dice il curato suo amico vedendolo spirare. Enric Marco non è matto. Io ho cercato di riportare alla realtà la sua finzione perché si riconciliasse con chi è davvero. Ma lui ha dimostrato di non averne voglia. Ho l’impressione che non desideri morire come Alonso Quijano, ma come Don Chisciotte» dice Cercas riportandomi alla stazione in macchina dopo aver infilato nel lettore un cd di Fabrizio De André: «È tristissimo, ma formidabile».
Marco Cicala