Bryan Christy, National Geographic 8/2015, 26 agosto 2015
NATURA MORTA
MI INCAMMINO NEL CAVERNOSO CENTRO CONVEGNI di St. Charles, nel Missouri, passando accanto a una zebra che scaglia una leonessa a cinque metri di altezza e a uno squalo bianco a grandezza naturale che dà la caccia a un piccolo di foca. Lungo i corridoi espositivi sono allineati i più grandi predatori al mondo, tra cui leoni, puma, leopardi e lupi.
Tra i corridoi cominciano a sfilare anche i visitatori del Campionato mondiale di tassidermia, un’arte che è sopravissuta alla sua epoca d’oro e si è evoluta, dando origine a un paradosso nella protezione degli animali selvatici: in alcuni casi, uomini e donne che uccidono possono anche proteggere, e con altrettanto entusiasmo.
Per anni ho indagato i crimini internazionali perpetrati sugli animali, denunciando il massacro con articoli, documentari e un libro, ma se ho intrapreso questa strada è stato proprio grazie al periodo trascorso da ragazzo come tassidermista.
Sin dall’Ottocento, quando i cacciatori portavano i loro trofei dai tappezzieri per imbalsamarli, la tassidermia ha svolto un ruolo importante nella protezione delle specie. Se fatta bene, può offrire l’opportunità di apprezzare da vicino, e nelle loro sembianze naturali, creature che potremmo non incontrare mai allo stato selvatico. Le vediamo senza le sbarre di uno zoo, nelle stesse posizioni che potrebbero assumere in natura e, come dice Timothy Bovard, tassidermista del Museo di Storia Naturale della Contea di Los Angeles, «c’è qualcosa di elementare nell’esperienza».
Questo è il motivo per cui, dopo aver scritto per anni sullo sfruttamento criminoso degli animali, sono venuto a questa riunione di maestri tassidermisti, nella speranza di rilassarmi un po’. Ma è una speranza vana.
«È illegale!», urla una donna rivolta alla tassidermista Wendy Christensen. La visitatrice arrabbiata punta il dito verso la pelle montata di un gorilla di pianura mentre Christensen sistema alcuni peli intorno alle grandi dita del primate. «Sono stata in Ruanda», protesta la donna, «e so che i gorilla sono protetti!». Christensen è una donna imponente i cui capelli biondi – impossibile non notarlo – sono pettinati all’indietro un po’ come quelli del suo gorilla. Fronteggiando la sua accusatrice, spiega con calma che per trent’anni Samson il gorilla è stato la principale attrazione dello zoo della Contea di Milwaukee. La visitatrice si scusa, ma resta a bocca aperta per la successiva affermazione di Christensen: questo animale non è che un pretesto per raccontare la storia di Samson, e non contiene una sola molecola di autentico gorilla.
Alla fine dell’ottocento l’apparentemente infinita riserva di fauna selvatica americana si stava consumando a gran velocità. Cacciatori professionisti uccidevano selvaggina in quantità industriali per provvedere alle richieste di conciatori, ristoratori, cappellai e altri committenti. Procedendo imperterriti come se l’estinzione fosse qualcosa di impossibile, gli americani uccisero milioni di bisonti per profitto e per sport, tanto che alla fine dell’Ottocento ne rimaneva solo qualche centinaio.
Un tempo i colombi migratori erano gli uccelli più numerosi d’America.
Nel 1878, nei dintorni di Petoskey, Michigan, i cacciatori che rifornivano i ristoranti presero di mira un grande stormo e uccisero qualcosa come un miliardo di uccelli in poche settimane. Nel 1914 morì l’ultimo colombo migratore d’America (e fu montato da un tassidermista della Smithsonian Institution).
Ma la lista delle specie massacrate è lunga, un po’ come quella, in continua crescita, delle specie africane e asiatiche a rischio oggi.
Il presidente degli Stati Uniti Teddy Roosevelt fu al contempo naturalista e cacciatore, così come le dozzine di amici che radunò verso la fine del 1887. Insieme fondarono il Club Boone and Crockett, il cui obiettivo era duplice: promuovere l’attività federale di protezione della fauna selvatica e assicurarsi una scorta di animali da cacciare. Il Club diede vita alla New York Zoological Society, che in seguito si trasformò nell’odierna fondazione Wildlife Conservation Society.
Cominciai a dedicarmi alla tassidermia all’età di 12 anni. Come molti competitori del Campionato mondiale di tassidermia e come il direttore dell’evento Larry Blomquist, imparai alla Northwestern School of Taxidermy, una scuola per corrispondenza di Omaha, Nebraska, che offre corsi piuttosto semplici da seguire (Lezione n. 1: leggi tutto questo libro. Lezione n. 2: procurati un colombo. Lezione n. 3: procurati gli strumenti; bisturi, grattini per osso, spatola per il cervello, arsenico...).
Il padre della tassidermia moderna fu Carl Akeley, naturalista ed esploratore nato a New York. Akeley elevò la tassidermia da forma di tappezzeria maleodorante (spella l’animale, fai bollire le ossa, crea l’impalcatura interna con le ossa e il filo metallico, metti la pelle intorno all’impalcatura e imbottiscila di stracci e paglia) a forma d’arte.
Akeley scolpiva i corpi degli animali in posizioni naturali, usando argilla e cartapesta per rappresentare, con una precisione anatomica senza precedenti, i muscoli e le vene di un esemplare prima di riapplicarne la pelle. Alla fine sistemava le sue realistiche creazioni in diorami progettati per ricreare l’habitat originale, usando perfino le foglie trovate sul terreno su cui si trovava l’animale.
Ma l’idea rivoluzionaria di Akeley, che resta valida ancora oggi, era di collocare gli animali morti all’interno di una struttura narrativa. «Il segreto della tassidermia è raccontare tutta la storia», spiega Jordan Hackl, un ventiduenne che partecipa al campionato mondiale. Non si tratta di impagliare un cervo, prosegue, si tratta di raccontare la storia del cervo. Era inverno? Allora farai bene ad avere un maschio con la giusta lunghezza del pelo. Era in amore? C’è una cerva? Meglio allora che abbia le narici dilatate.
L’impatto di Akeley è evidente ovunque vengano esposti animali imbalsamati. Alcune delle sue creazioni più conosciute sono ancora in mostra al Field Museum di Chicago e al Museo americano di Storia Naturale (AMNH) di New York.
Al centro della Sala Akeley dei mammiferi africani all’AMNH c’è The Alarm, una scena che comprende un branco di otto elefanti. Vecchia di un secolo ma ancora emozionante, è considerata da molti il capolavoro mondiale della tassidermia.
Nella stessa sala c’è anche un’altra opera che forse potremmo considerare la più importante per Akeley. Si tratta di un diorama di gorilla di montagna i cui figuranti furono uccisi dalla sua squadra nel Congo Belga nel 1921. Quel viaggio cambiò la vita del tassidermista. Contemplando il cadavere del maschio dominante, commentò in seguito: «Ci volle tutto l’ardore scientifico possibile per non sentirsi come degli assassini».
Dopo il suo ritorno dall’Africa Akeley fece pressioni sul re del Belgio Alberto I affinché creasse un santuario per i gorilla di montagna. Il Parco nazionale Albert, fondato nel 1925, fu il primo parco nazionale africano e oggi è noto come Virunga. Perciò Akeley è riconosciuto come uno dei padri della protezione dei gorilla.
Dal punto di vista di Akeley la tassidermia era un inestimabile servizio alla scienza, un modo per preservare ciò che lui temeva potesse estinguersi. Illustrò questa sua preoccupazione anche ai lettori di National Geographic nel numero di agosto del 1912, in un articolo che descriveva la sua caccia agli elefanti poi usati in The Alarm. Rammaricandosi del fatto che le zanne del maschio migliore che avesse preso pesassero solo 45 chili ciascuna, Akeley sottolineò che non era raro trovare elefanti con zanne da 90 chilogrammi. Scrisse che sperava di prenderne uno da preservare per le generazioni future, prevedendo che presto “gli ultimi esemplari con zanne mostruosamente grandi saranno uccisi per l’avorio”. Oggi è una rarità vedere un elefante con zanne anche solo di 45 chilogrammi.
George Dante apre il congelatore e tira fuori Lonesome George (George il solitario), l’ultima tartaruga delle Galapagos dell’Isola Pinta, morta nel 2012. Dante è uno dei tassidermisti più stimati al mondo, perciò è stato assunto per imbalsamare il famoso animale.
Appoggiando la tartaruga congelata su un tavolo, si dice preoccupato che Lonesome George sia troppo famoso per potergli rendere giustizia in forma imbalsamata. Una cosa è preparare una pelle per rappresentare una specie, spiega, ma se la creatura ha un aspetto individuale identificabile la musica cambia. È per questo che «non faccio animali da compagnia», sottolinea. «La gente conosce troppo bene il volto dei propri animali, e questo è davvero difficile da catturare». Nonostante la lunga permanenza nel congelatore, «Lonesome George sembra in forma», continua Dante con un sospiro di sollievo. Samson il gorilla fu tutt’altra storia. Samson era un gorilla di pianura piuttosto sovrappeso – 296 chili – che proveniva dal Camerun. Era famoso perché sbatteva sempre i pugni contro una finestra di plexiglas dello zoo della Contea di Milwaukee, terrorizzando i visitatori. Un giorno, nel 1981, davanti ai suoi fan, Samson si accasciò a terra e si portò le mani al petto. I veterinari dello zoo non riuscirono a rianimarlo. Un’autopsia rivelò che aveva già avuto cinque infarti in precedenza.
Il corpo di Samson rimase nel congelatore dello zoo per anni. Quando il Museo pubblico di Milwaukee ne entrò finalmente in possesso, si riscontrò che la pelle del gorilla era troppo danneggiata per essere montata. Allora il museo tentò di esibire lo scheletro di Samson, ma le ossa non rendevano affatto giustizia all’esuberante primate. Samsun non era solo morto, era stato addirittura zittito.
Wendy Christensen, dipendente del museo che aveva cominciato a tassidermizzare quando aveva 12 anni (ebbene sì, grazie alla Northwestern School of Taxidermy) restò molto turbata da questa circostanza, tanto che propose di resuscitare Samson tramite la variante di tassidermia chiamata “ri-creazione”, una rappresentazione artificiale di un animale per la quale non si usa l’animale originale né altri individui della sua specie. Nel 2006, 25 anni dopo la morte di Samson, Christensen cominciò a creare il doppelgänger sintetico della scimmia partendo da zero.
Christensen modellò un viso di silicone basandosi sulla maschera mortuaria in gesso di Samson e migliaia di fotografie. Ordinò una replica di scheletro di gorilla da un rivenditore chiamato Bone Clones e una mistura di pelo di yak e pelo artificiale da National Fiber Technology, l’azienda che fornì il pelo per il personaggio Chewbacca dei film di Guerre Stellari. Per le mani di Samson usò calchi di mani di gorilla provenienti dallo zoo di Philadelphia e li riprodusse in silicone, sino alle impronte digitali. Contornò gli occhi sintetici con false ciglia comprate dai grandi magazzini Walmart.
Infine, Christensen trascorse un anno in una postazione di lavoro sopraelevata in piena vista dei visitatori del museo, impiantando peli nel viso e nel collo di silicone di Samson mentre i bambini facevano domande e i genitori condividevano cari ricordi dell’incontro con il gorilla quando erano piccoli.
Tra i tassidermisti, le opinioni sull’uso del sintetico contro materiale animale vero e proprio sono miste. Bovard dice che quando chiacchiera con i visitatori delle mostre con animali al suo museo spesso gli chiedono «quali dei nostri animali sono veri e quali non lo sono, e reagiscono in modo differente alle due tipologie». In un’era in cui i media e la tecnologia ci propongono continuamente versioni diverse o alternative della realtà, dice Bovard, l’articolo genuino conserva un suo fascino.
Ma questa è solo una percezione. Un giudice al campionato mondiale di tassidermia si chiedeva in privato se questa forma d’arte non si fosse spinta troppo in là. Nella ricerca di animali che forniscano trofei di elevata qualità, diceva, «eliminiamo i geni migliori dal pool genetico», a danno della specie.
Quando Christensen portò Samson al campionato, era in gara non solo contro altre ri-creazioni ma anche contro i migliori esempi di tassidermia con animali veri al mondo. Vinse il primo premio nella categoria ri-creazioni. Vinse anche il premio della giuria e il premio “Best of Show”, battendo maestri internazionali che avevano portato le loro migliori – e reali – riproduzioni di animali selvatici.
Il tutto senza torcere un solo pelo a un gorilla.