Tino Oldani, ItaliaOggi 26/8/2015, 26 agosto 2015
IN RAZZA PADRONA EUGENIO SCALFARI DEMONIZZÒ CEFIS ED ESALTÒ ROVELLI FU LA MADRE DI TUTTE LE SUE BUFALE: LA SIR ERA UN CASTELLO DI BILANCI FALSI
Razza padrona, uscito nel 1974, è un libro che ebbe un discreto successo di vendite e contribuì anche a innovare il linguaggio delle cronache economiche, dove «razza padrona» e «borghesia di Stato» divennero di uso comune per indicare in senso negativo i capi più in vista delle aziende di Stato. La tesi degli autori, Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani, era molto semplice: dopo la nazionalizzazione dell’industria elettrica (1962) e la scomparsa delle vecchie holding elettriche private, il potere economico era passato sempre più nelle mani dei «boiardi» delle aziende pubbliche che facevano capo a Iri ed Eni, favoriti dai partiti nell’accesso ai fondi pubblici. Il che, secondo Scalfari e Turani, aveva indebolito l’industria privata e la Confindustria, a vantaggio della nuova «borghesia di Stato», che aveva a quel tempo in Eugenio Cefis, presidente dell’Eni, il campione più in vista.
Ma Cefis, per Scalfari e Turani, non era affatto un esempio di virtù imprenditoriali, bensì un autentico saccheggiatore di fondi statali, attuato con la connivenza di politici dc di primo piano (Amintore Fanfani in testa), dunque un personaggio pericoloso, demonizzato per pagine e pagine, con l’obiettivo di provocarne la caduta, ovviamente a favore di una nuova leva di imprenditori privati, più battaglieri di Gianni Agnelli («avvocato di panna montata», Scalfari dixit), primo fra tutti Nino Rovelli, patron del gruppo chimico Sir, al quale il libro dedicò un capitolo entusiastico: «Rovelli al contrattacco».
La tesi di Scalfari e Turani ha tenuto banco per anni, grazie anche al fatto che i giornaloni sono sempre stati attenti a non disturbare le loro proprietà private. L’unico che ha provato a rovesciare il copione di Razza padrona, purtroppo tardivamente, è stato Marcello Colitti (1932-2015), che nel suo libro di memorie (Eni. Cronache dall’interno di un’azienda; Egea, 2008), ha dedicato un capitolo illuminante, con risvolti autobiografici, al «problema Rovelli». Perché «problema»? Semplice: nell’accedere ai finanziamenti pubblici per il suo gruppo chimico (Sir, Società italiane resine), Rovelli fu talmente astuto da creare più di un grattacapo a un grande gruppo come l’Eni: «Per ottenere i crediti e le sovvenzioni, che in teoria sarebbero spettate solo alle imprese piccole e medie, Rovelli aveva diviso il suo piccolo impero in un numero stravagante di società, ognuna delle quali posseduta da un’altra, e ognuna proprietaria di un pezzo, più piccolo possibile, degli impianti che andava a costruire. Ma tutto ciò non bastava, e poiché Rovelli non avrebbe certo trovato capitale sul mercato azionario, la sua principale fonte di crediti furono le strutture pubbliche, l’Imi e il Crediop».
Dunque, un imprenditore che era sì privato, ma finanziato per intero da grandi banche pubbliche. Come era possibile? «Rovelli aveva organizzato una rete di amicizie politiche, che non solo gli garantiva le sovvenzioni, ma faceva della Sir una pedina del gioco politico sempre vivace intorno all’industria chimica. Aveva arruolato personaggi politici, a cominciare dal futuro presidente della Repubblica, Giovanni Leone, e i finanziamenti non gli mancarono mai, fino a un attimo prima del crollo». Tra gli altri sponsor politici, Giulio Andreotti (Dc) e Giacomo Mancini (Psi).
Colitti racconta che «Cefis era furibondo che qualcuno usasse meglio di lui l’interfaccia con lo Stato, e non faceva che lamentarsi». Arrivò a dire di Rovelli: «È un pirata, e mettersi d’accordo non è possibile, perché quello compra ministri all’ingrosso». Nel tentativo di contrastarlo, all’Eni si decise di studiare a fondo i bilanci delle centinaia di società Sir. Cefis ne incaricò Colitti, il quale, non riuscendo a rintracciare neppure un bilancio, chiese a un giornalista amico, Marcello Di Falco, firma di punta dell’Agenzia Italia (di proprietà Eni), di recarsi in Sardegna (la Sir operava solo nell’isola) per averne copia dalle cancellerie dei tribunali. Ma non si trovò nulla, poiché «il presidente della Corte d’Appello li aveva portati a casa per studiarseli meglio». Un eufemismo.
Messo poi alle strette, il magistrato consegnò i bilanci. «L’analisi dimostrò esattamente quello che avevo sempre pensato», ha scritto Colitti. «Le società di Rovelli erano un intrico nel quale il capitale proprio era quasi zero e il valore netto dei debiti poco più». In sostanza, un castello di debiti, mascherati da bilanci falsi, nascosti a casa di un magistrato amico. Questo, ci ha spiegato Colitti, era Rovelli, il campione dell’imprenditoria privata che, a sentire Scalfari, doveva suonare la riscossa contro il dèmone statalista Cefis.
Il libro di Colitti non va oltre. Ma per la cronaca è bene ricordare che Rovelli dovette passare la mano a un consorzio di banche nel 1979, appena cinque anni dopo l’uscita del libro di Scalfari. Due anni prima, anche Cefis aveva mollato tutto all’improvviso, nella sorpresa generale, ritirandosi a vita privata in Svizzera: allora era alla guida della Montedison, alleato di Enrico Cuccia (Mediobanca), ed era considerato uno degli uomini di maggiore potere in Italia. Paura della giustizia, si disse. Un mistero mai sciolto.
Tino Oldani, ItaliaOggi 26/8/2015