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 2015  agosto 26 Mercoledì calendario

IL CAV SI FIDA SOLO DI SE STESSO

[Intervista a Paolo Guzzanti] –
Avvertenza: questa intervista è in conflitto di interessi affettivi. Se chi scrive ha fatto il giornalista è perché, da ragazzino, leggeva Paolo Guzzanti, inviato di Repubblica. Come quando Eugenio Scalfari lo mandò a El Salvador, nel 1980, dove infuriava una guerra civile sanguinosa ed era stato ucciso un vescovo, oggi santo.
Guzzanti, pur essendo il suo giornale allora di una sinistra militante, scriveva chiaro che le efferatezze le facevano sì gli squadroni della morte di Arena, ma che anche i guerriglieri, i marxisti del Farabundo Martì, non scherzavano affatto. «Quello che lei dice mi commuove», risponde Guzzanti da Miami, dove passa ormai più tempo che in Italia, «perché a quei ricordi sono particolarmente legato. El Salvador, 35 anni fa, era spettacolare: quelle chiese barocche, quei bambini nella macchia verde...».
Guzzanti, romano, 75 anni, ha scritto sui grandi quotidiani, ha fatto tv e poi ha fatto politica, alla sua maniera, in modo tumultuoso cioè, scegliendo, controcorrente di stare con Silvio Berlusconi, lui che da giovane era socialista. Quindi ci litigò pesantemente, per poi riappacificarsi.
Domanda. Guzzanti nel suo blog, paologuzzanti.it, i pezzi sulla politica patria sono sempre più rari.
Risposta. La politica italiana, sempre stata tetra noiosa, inutilmente pettegola, meglio seguire l’ascesa di Donald Trump, come sto facendo adesso.
D. A proposito di Trump, ha visto che, l’altro giorno, che Economist è corso a paragonarlo a Berlusconi. Sarà stato un omaggio al nuovo editore italiano, Exor, che in quei giorni diventava azionista di maggioranza?
R. No, non l’ho letto, ma credo che agli Agnelli, in questo momento, non importi niente del Cavaliere. Peraltro...
D. Peraltro?
R. Peraltro effettivamente fra i due, Trump e Berlusconi dico, i punti in comune non mancano.
D. Lei il secondo l’ha conosciuto da vicino, il primo lo sta studiando, che cosa li accomuna?
R. Beh, anche Trump, come il Cavaliere, è un uomo del fare, del «basta chiacchiere, adesso facciamo», del «mi sono fatto da solo».
D. Il Cavaliere, che in questo momento continua a essere un po’ defilato, ha recentemente espresso di voler rifare il gruppo dirigente di Forza Italia, arruolando alcuni intellettuali. Un po’ come nel ’94.
R. Capitai ad Arcore, proprio nei giorni in cui aveva radunato tutte le teste pensanti della Rivoluzione liberale.
D. Quando accadde?
R. Avevo condotto sulle su tv un programma che ebbe ascolti disastrosi. Andai da lui, rassegnato al peggio.
D. E invece?
R. Fu gentilissimo e mi disse che d’aver trovato il nome del nuovo partito. «Si chiamerà Forza Italia, ti piace?». Non risposi, perché mi vennero i brividi. Poi mi condusse fino a una finestra, mostrandomi un raduno di persone, là sotto, in giardino. «I liberali sono tutti con noi», disse.
D. E chi c’era?
R. Bah, insomma, i noti, Giuliano Urbani, Antonio Martino, gli altri. Parevano fenicotteri, là sotto, trampolieri ma col calice in mano. Insomma, persone pregevolissime, per carità, ma lui ne parlava come uno che ha uno zoo, come teste di cervo appese al muro.
D. Una storia finita, quella di Berlusconi in politica?
R. Non lo so. Il nuovo corso non lo conosco affatto e la vecchia guardia è uscita. Quanto agli intellettuali, va benissimo, c’erano anche all’inizio appunto, ma si sono sfilati, uno a uno, per il solito motivo.
D. Quale?
R. Che lui, in genere, non segue gli altri, ma li usa, a volte come un ornamento, altre come uno strumento, perché pensa sempre che il suo pensiero sia sufficientemente forte
D È il suo limite?
R. Sì, quello che di capire tutto da solo: Berlusconi non si lascia spiegare nulla. In questo senso diverso da Trump.
D. Ah sì?
R. Guardi, proprio ieri, in un’intervista su Fox, l’ha detto chiaro e tondo: «Io non devo sapere tutto, come aspirante presidente, ma devo sapermi circondare dalle persone che sanno».
D. Più saggio?
R. Decisamente, se uno presume di sapere tutto, di fare tutte le mosse, magari per genialità ci riesce, per un po’, ma, alla lunga, non funziona.
D. Questo è un appunto che fanno anche a Matteo Renzi.
R. Ho una conoscenza di Renzi pari a zero. O meglio, so di lui quello che scrivono i giornali. Vedo che ha intorno a sé un gruppo, che promuove anche con incarichi, e immagino che si faccia nutrire dalle loro informazioni e le loro idee, che si faccia dire a che punto sono le cose. E lì la questione: se uno ritiene che le cose siano come le pensa lui, finisce presto.
D. E il governo di Renzi, come lo vede, dall’altra parte dell’Atlantico?
R. Mi pare che annaspi un po’ ma, d’altra parte, era in inevitabile, considerando che i miei amici della sinistra interna, appena prese il partito, facevano già i gruppi di lavoro per la secessione. Per questo Renzi ha dovuto cercare la ruota di scorta di Forza Italia e questo l’ha un po’ appannato. Non mi pare però un governo al collasso.
D. Anche perché, in settembre, si dovrebbero vedere in aula, al Senato, gli effetti di un’intesa con Denis Verdini, che lei ha conosciuto bene. Il «Nazarenino» può durare di più?
R. Guardi, l’ultima volta che ho incontrato Berlusconi è stato l’anno scorso, quando funzionava il Nazareno.
D. E che le diceva?
R. Ah, ne era entusiasta. «Sapessi come è divertente», spiegava, «loro, Renzi e Verdini, parlano la stessa lingua, si insultano, si danno del ’bischero’». Ma aldilà dell’aspetto folcloristico, si può dire che i due, Renzi e Verdini, parlino la stessa lingua, siano consanguinei della politica pragmatica, senza fronzoli, da gomitate nello stomaco.
D. Ma Verdini, di cui non si conosce ancora il peso parlamentare, quanto conterà?
R. Credo che il suo supporto sarà deciso, del resto ha fatto quel che ha fatto, l’uscita da Forza Italia intendo, per questo.
D. Repubblica, giornale che lei ha amato e odiato, per come trattò il caso Mitrokhin, con Renzi ha avuto un atteggiamento ondivago: opposizione frontale, nelle primarie del 2012, sostegno come segretario del Pd e nel primo periodo del governo, ora critica...
R. ...blanda.
D. Beh, a volte blanda, a volte no, specialmente se a scrivere è Scalfari.
R. Sa, li dipenderà molto anche dagli umori dell’editore, Carlo De Benedetti.
D. Che in una certa fase aveva endorsato il premier.
R. Appunto. E poi ci sono gli umori di Scalfari, di Ezio Mauro...
D. Mentre il Corriere è sempre stato piuttosto severo col governo.
R. E lì ci sarebbe da capire quegli interessi complessi, che stanno nella compagine degli azionisti. Ci vogliono bilanci, bilancini, per decifrare che cosa ne esce.
D. La direzione attuale, peraltro molto innovativa, dal punto di vista editoriale, sembra meno da battaglia di quella di Ferruccio De Bortoli che, con Renzi trionfante, era diventato di giorno in giorno più duro, fino all’editoriale famoso, «dell’odore stantio di massoneria», a proposito del Nazareno già citato.
R. Io mi sento molto vicino a De Bortoli, che è un signore, però quell’accusa ebbe l’effetto di una banalità.
D. Massoneria in un accordo di governo, banale?
R. In Italia, quando vuoi adombrare qualcosa, la massoneria è un sempre verde, uno schema. Come mafia, «servizi segreti deviati», quando vuoi distruggere qualcuno, sono richiami perfetti. Ai tempi di Licio Gelli, a Repubblica...
D. Ai tempi di Gelli?
R. Si stava bene attenti a distinguere massonerie buone, Grande Oriente, rito scozzese eccetera, dalla P2. A Miami poi le logge massoniche le trova per strada, come le chiese.
D. A proposito di misteri, lei cercò di svelarne uno, il dossier Mitrokhin, sugli Italiani che facevano la spia per l’Urss, e ne uscì malissimo.
R. Sconfitto. Distrutto. Cacciato dal Parlamento.
D. Perché la vicenda era troppo trasversale nei coinvolgimenti? Che idea s’è fatto, a distanza di qualche anno?
R. I coinvolgimenti c’erano e ci sono ancora, anche se non ne ho le prove, intendiamoci. Però la presenza di Gazprom in Europa andrebbe capita di più. Chi sono? Che cosa fanno? Chi pagano? In più c’era ora una zona grigia dove è in atto una nuova Guerra fredda, in realtà molto calda, nei Paesi Baltici, dove Obama e Putin si affrontano.
D. Misteri italiani, invece, non paiono essercene più. Se si eccettua i vecchi, sempre insoluti.
R. Insoluti, perché spesso non si vogliono risolvere. Con la Commissione Mitrokhin mi imbattei in alcuni documenti della Stasi, la polizia politica della Germania Est, che spiegava come l’attentato al treno del 1984...
D. ...il Rapido 904, sull’Appennino, sotto Natale...
R. ...esattamente, fosse stato compiuto dal terrorista Carlos, come altri attentati in Francia, nello stesso periodo. E io trasmisi tutto alla Procura, ma senza esito. Del resto, ogni giorno, venivano a casa mia troupe di tutto il mondo a intervistarmi sui dossier Mitrokhin e in Italia non fregava niente a nessuno.
D. Lei mette in discussione anche molte altre verità ufficiali, se non sbaglio.
R. Sì, nessuno ci ha mai detto il senso della Strage di Bologna del 1980. I fascisti, si dice. Ma perché? E la strage di Ustica? Il missile? E perché? Ormai questa è un’iconografia religiosa e chi si azzarda a denudare S. Antonio, paga. Ma scusi anche Giovanni Falcone...
D. Falcone?
R. Se ne stava al ministero di Grazia e Giustizia e Cosa Nostra lo uccise. Per quale motivo? La mafia non ha mai dato Oscar alla carriera. E perché Paolo Borsellino poi? Dai processi non esce niente. E ora ci si agita sulla trattativa Stato-Mafia, ma perché non indagano sulle cose su cui dovrebbe indagare davvero.
D. Sua figlia Sabina c’ha fatto un film. Lei, vedendo La Trattativa, disse che le avrebbe fatto appunto queste domande. Lo ha fatto?
R. No, ci siamo visti, ma abbiamo parlato di altre questioni. Ma questa della trattativa è tutta un costellazione, che include Marco Travaglio, e che mi lascia perplesso. Ripeto: indaghiamo gli altri grandi sul perché di queste vicende.
D. Ora imperversa «Mafia capitale», rilanciata dal funerale dei Casamonica a Roma, del quale lei ha criticato le molte chiose giornalistiche: «Uno spreco di banalità, luoghi comuni, indignazione a comando».
R. Massì, ho scritto che è stata una messinscena, un’istallazione che ha funzionato, ma aridatece la Banda della Magliana: la mafia non c’entra un fico secco. Qui tutto è mafia e, come diceva Leonardo Sciascia, alla fine «niente è mafia».
Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 26/8/2015