Enrico Deaglio, la Repubblica 26/8/2015, 26 agosto 2015
ROMANZO DI UNA NAZIONE DAL DESTINO INCOMPIUTO
Se fosse un quadro, l’ultimo romanzo di Maurizio Maggiani sarebbe “Il Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo: lento, potente, epico, nel genere “la storia siamo indubbiamente noi”, oppure, scandito e andywahrolizzato come allo stadio “i campioni d’Italia siamo noi”. E sarebbe un audio-quadro, narrato da quel fantolino, un
Omero neonato, che la donna in prima fila ha portato allo sciopero, un po’ perché a casa non c’è nessuno, un po’ perché così impara come va il mondo. Se fosse un manifesto politico, a dispetto del titolo, Il Romanzo della Nazione , non sarebbe il partito vagheggiato da Matteo Renzi, troppo unanime, semplice, dolce e plasticoso; ma piuttosto un’assemblea popolare dove i migliori discorsi sono i lunghissimi silenzi. E per finire, se fosse un intervento nella sempre ribollente querelle letteraria italiana, starebbe dalla parte opposta al “Tutti” di Francesco Piccolo; una ribellione all’annullamento mediatico nella mediocrità della fine della storia; se per Piccolo il declino italiano è scandito dal “chesaràmai?”, per Maggiani la discussione sul futuro della Nazione riguarda alcuni problemi irrisolti tra anarchici e mazziniani. Costruire nazioni o costruire mondi? Inalberare come slogan “Dio e popolo” o mettere un accento a quella congiunzione?
Il Romanzo della Nazione ,
già dalla copertina con il giovane marito che bacia la giovane moglie con cui divide la sella della bicicletta, è un omaggio filiale a una famiglia e a un popolo di altri tempi; un onore al padre e alla madre, ai loro pudori e ai loro sogni. Eroi eponimi della mitica costruzione dell’Italia, i coniugi Maggiani hanno conosciuto il fascismo, la guerra, hanno contribuito, senza vantarsene, alla lotta partigiana. E se ne vanno, silenziosi come erano vissuti, accuditi da infermiere premurose (una è detta “la Gigantessa”), nei locali di una sanità pubblica qualche volta ciabattante, ma pur sempre dignitosa e umana. Il loro figlio, che era nato in casa col forcipe (da cui le orecchie a sventola e le tempie schiacciate) ripercorre la loro, e la sua, memoria. Scrittore solitario e affermato, si immagina come un narratore che sta raccogliendo notizie, frammenti, archivi, frammenti di memorie per la compilazione di una storia italiana, colpito dal disordine attuale, ma memore della sentenza che Giuseppe Garibaldi (in poncho) pronunciò dopo aver visto il vestibolo del parlamento di Torino, con i suoi attaccapanni ricolmi di tube, cilindri, bombette e mantelli orlati di astrakan: «Non era questa l’Italia ch’io sognava ». E la storia si dipana — Maggiani qui dà il suo meglio di storyteller, affabulatore, distillatore di particolari e colpi d’ala — in momenti di storia pop che uniscono la fucilazione pubblica (con pubblico di famiglie e bambini) del bandito Sante Olivieri, l’immediato vociferare in famiglia sulle colpe della perfida Nilde Iotti nella morte di Togliatti («è stata lei, con la stricnina »), il tono di voce degli annunciatori della radio e le lacrime del padre per la morte di John Kennedy, il buon ricordo di Sandro Pertini. Come nelle precedenti opere, i luoghi dove questi italiani agiscono sono le colline della Lunigiana e i grandi porti di La Spezia e Genova (a proposito di quest’ultima Maggiani ingaggia da sempre un duello a chi è più bravo con Giorgio Caproni e Paolo Conte) e il nord Africa delle colonie, di El Alamein e di Alessandria d’Egitto.
Ma questa volta, Maggiani rende corto il tempo. Ed ecco dunque che il conte di Cavour, Mazzini, Garibaldi, Pisacane, quel traditore golpista di Napoleone III, l’infame Bava Beccaris, il generoso Menotti Serrati appaiono contemporanei e si siedono, a discorrere e litigare, accanto a protagonisti proletari dai volti sconosciuti e dai segreti ben custoditi. Se i programmi dei vip sono noti, le utopie e i sogni del popolo sono immensamente più grandi e più poetici. Tutto il romanzo improvvisamente si anima, proprio come se il Quarto Stato sulla tela si mettesse a correre, quando si arriva all’epopea della costruzione dell’Arsenale militare di La Spezia — la metafora della Nazione, dell’essere Nazione — il sogno realizzato dell’industria dominatrice dei mari, che culmina con il varo, il 10 luglio 1878, della corazzata Dandolo, la più bella nave di tutti i tempi, quella che gli inglesi ammirano e temono, quella che ebbe la fortuna di non essere mai impegnata in battaglia e che concluse la sua carriera portando soccorso ai terremotati di Messina nel 1908. Accanto a lei, capolavoro italiano dell’acciaio, i fonditori, le ricamatrici delle bandiere, i mozzi, gli ufficiali, i marinai e i manovali, e sbirri, ergastolani, agitatori e demagoghi. Tutti fieri di assomigliare a personaggi di Bertolt Brecht, tutti non-eroi, ma contenti di essere ricordati nella Spoon River del nipote dell’elettricista Maggiani.
A vent’anni da Il coraggio del Pettirosso , il libro che gli diede la fama, a dieci anni da Il Viaggiatore Notturno che gli diede lo Strega, Maurizio Maggiani si conferma unico tra gli scrittori italiani, soprattutto per generosità narrativa. Segnala, con interventi puntuali sui giornali, piccoli segni del declino e dell’immiserimento; a questi, contrappone, nei libri, il ricordo di una lunga età dell’oro che affonda le sue radici in uomini ed idee dell’Ottocento. Tutta la sua opera costituisce una saga sulla “nazione che avremmo potuto essere e che non siamo”, sul brutto destino dei destini comuni, sui sogni che fanno i lavoratori quando lavorano, sui loro gesti, sui loro silenzi, sulle malattie che li frenano e che rendono impossibili gli amori. Collante di quest’unico romanzo, diventa così un particolare paesaggio italiano fatto di cibi e cucine povere, corridoi di ospedale, gesti immersi in un ambiente agricolo, sigarette senza filtro, la mineralità dell’Italia centrale, il continuo stupore del contadino per l’idea della grande città, un lessico famigliare volutamente povero, quasi pleistocenico.
Il romanzo della nazione è fatto di dolori e di stanchezze; ma punteggiato di eroismi taciuti, come quello del signor Trippi, scafista spezzino di ebrei verso Haifa e di ostinate ribellioni, come quella del padre che vieta alla figlia di imparare a memoria La cavallina storna , perché stupida e falsa; o di quel professore di liceo romagnolo che ha dedicato la sua vita a propagandare l’esempio di Mao Tse-tung. Pensate, quell’uomo, di famiglia ricca, di velleità letterarie, si preparò alla Lunga Marcia mettendo nello zaino anche tre libri italiani tradotti in mandarino: la Divina Commedia , Il Principe e — qui vi stupirete, ma Maggiani assicura che è vero — un capitolo (intitolato La guerra per bande ) di La Rivoluzione italiana di Carlo Pisacane, un tipo che non vinse mai una sola battaglia, esempio piuttosto di utopie destinate a essere schiacciate. Però, con quei libri — Pisacane compreso — Mao costruì la nazione che è oggi la più potente del mondo. Dunque, davvero, le vie del romanzo sono infinite. E quel che conta è continuare a marciare.