Gianni Mura, la Repubblica 23/8/2015, 23 agosto 2015
IL SENSO DEL GIUSTO DA CATANIA A TERAMO
Jaakkola, Arioli detto Ape, Carlet, Vukotic, Goitom, Nichetti, Campo e Tribuna.
Vi dicono nulla? Aggiungo altri nomi: Quaglia, Gorobsov, Cardacio detto El Bochita, Riski, Pasticcio, Tarallo, Pastrello, Lança, S. Tognon, Nigmatullin oggi più noto come dj Ruslan, Piredda, Wilker, Zani. E’ il mio omaggio alla serie A che riparte, che è già ripartita. Tutti questi nomi sono collegati dall’aver giocato una partita in serie A da quando si danno tre punti a vittoria, cioè dal 1994/95. Una e basta. Non stelle ma meteore. I nomi li ho presi dal libro di un collega della Stampa, Roberto Condio, libro che, per l’idea ispiratrice, mi piaceva già prima di leggerlo. “Ho giocato in serie A (una volta sola)” è il titolo (ed. Ultrasport, 219 pagine,16 euro). Sono in tutto 307: 22 hanno esordito con la maglia del Milan, 17 con Inter, Parma e Udinese, 16 con l’Atalanta, 7 con la Juve. In 6 hanno fatto gol, solo uno s’è beccato un rosso, a 12 è bastata quell’unica apparizione per mettere la loro firma sotto lo scudetto. Sono numeri, e d’altra parte il calcio è fatto anche di numeri. Tanti da farne indigestione, negli ultimi giorni. I numeri dei bilanci, dei pesi, delle altezze, delle presenze, dei gol fatti, dei gol subiti, delle maglie, nessuno ha ancora pensato al numero di scarpa, ce ne sarà ancora qualcuno che calza scarpe nere? Ma questo metaforico e grosso treno che riparte ha ancora i vagoni di prima classe, di seconda e di terza ed è continuamente il treno dei desideri, delle speranze, dei sogni, cose non secondarie per me, cose che non si possono incolonnare come le presenze, eppure sono presenti. E se ne hanno di più quando si è giovani.
I307, Condio non li lascia sul campo dell’esordio, li accompagna fino al termine della carriera. Alcuni, come Calabria, di partite in A ne giocheranno ancora parecchie. Ad altri, come Niccolò Galli e Mattia Dal Bello, non è stato concesso dal destino: uno a 18 anni, uno a 19 sono morti in un incidente stradale. Altri ancora sono stati messi fuori gioco da un ginocchio, da un fallimento, da un tendine d’Achille, da una partita combinata, da un etto abbondante di cocaina, da un procuratore troppo avido. Ma poi cosa significa fuori gioco? Tanti hanno continuato a giocare, ma non in A. In Austria, in Belgio, in Venezuela, in Turchia, in Portogallo, in Ungheria, in Brasile, a Malta. O anche in Italia: a Noto, a Rovigo, a Sora, a Bolzano, a Monza, a Collegno, a Lugo, a Sassari, a Pavia. Fin troppo facile definire questo libro una sorta di Spoon River del pallone. In parte lo è, ma è soprattutto, e per questo mi piace, la dimostrazione che c’è un sacco di storie vere che si possono raccontare, basta averne tempo e voglia. Storie poco note? Meglio ancora. Le storie dei soliti noti c’è la coda per raccontarle, come fosse più istruttivo occuparsi di quelli che hanno fama e non di quelli che hanno fame. Parlo in generale e non è un gioco di parole.
BIANCO e nero sì. Nessun riferimento a Juve, Udinese, Siena. Bianco è il sindaco di Catania. Nero è il colore della vernice con cui qualcuno alla vigilia di Ferragosto ha coperto la faccia di Candido Cannavò nel murale a lui dedicato sullo slargo che fino al 3 marzo si chiamava piazzale Oceania. Prima che fossero rese note le sentenze Bianco ha scritto una lettera alla Gazzetta elencando le benemerenze sportive della città (Cannavò incluso, con Anastasi e Fiamingo, Pittera e Lo Cicero, ma sorvolando sul nero) e invocando una giustizia giusta, non umiliante e penalizzante per Catania. A me pare più penalizzante la chiusura di una fabbrica che la retrocessione di una squadra di calcio, tanto più se il suo presidente ha aggiustato un discreto numero di partite. Nessuna intenzione di sindacare il sindaco di Catania, penso avrebbe scritto le stesse cose da sindaco di Bari o di Bologna. Ma provi a chiedere al sindaco di Teramo o di Savona, le cui squadre sono finite in D su basi indiziarie, un parere sulla giustizia sportiva in Italia. Io ce l’ho e mi sposto in Spagna.
AFFETTASI è un cartello che avrei affisso sulla vetrina di una mia salumeria, l’avessi mai avuta. Ma in spagnolo non funziona. Da lettore assiduo di una palla di lardo, non posso rimanere insensibile davanti alla maglia del Guijuelo, che sta in Segunda B, terza serie insomma. E’ di un rosso non cupo, con venature bianche. Fette di prosciutto: la gloria di Guijuelo, paese sui mille metri con un clima ideale per la stagionatura. E’ la seconda maglia, la prima è biancoverde col profilo della torre campanaria. Molti, sul web, giudicano questa maglia suina la più brutta del mondo. Altri pensano che sia peggio quella del La Hoja Lorca. Lì la gloria locale è il broccolo e una fantasia di broccoli ispira non solo la maglia ma anche le braghette. Più che una divisa da calcio sembra un pigiamino. Per me era più brutta quella mimetica del Napoli e, in assoluto, una del Torino, talmente brutta che l’ho rimossa. Però: giù le mani dal pata negra, tanto più che il più munifico degli sponsor ha un prosciuttificio. E col prosciutto si può andare in coppa. Da oggi, muchachos, avete un tifoso in più.
Gianni Mura, la Repubblica 23/8/2015