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 2015  agosto 23 Domenica calendario

A CITTÀ DEL CAPO TRA NERI, BOERI E AIR BAG CHE ESPLODONO

A volte per imparare qualcosa devi tornare nello stesso posto due volte, a distanza di molti anni. Mi è capitato con Città del Capo e con Istanbul. Comincio dal Sudafrica.
Questa è la storia di due incidenti e molti pregiudizi. A Città del Capo, la prima e la penultima volta che ci sono stato, due problemi al volante mi hanno insegnato qualcosa sulla storia e sulle aspettative di fronte all’imprevisto e al prevedibile.
Nel 1993 il Sudafrica era una meta per pochi. I biglietti Alitalia costavano uno stipendio, ma in compenso gli aerei erano semivuoti e ci si poteva sdraiare su tre sedili per dormire in volo. Il Paese usciva dalla sua notte e si preparava alle prime elezioni. Non andavo per scriverne, ma per respirarne l’aria. Anni dopo, in una vasca dell’hotel Geller a Budapest un amico irrequieto mi chiese: «Per che cosa facciamo tutto questo casino? Il deltaplano, le guerre di teatrino, gli sconfinamenti notturni? Per la cosa in sé? Sai che noia, dopo un po’. Per raccontarlo? Un po’ tu, che ci campi. Ma in generale: per raccontarcelo, per scriverci l’autobiografia in progress». All’epoca infatti era per me stesso, quel viaggio. L’aereo atterrava a Johannesburg, da cui si poteva soltanto scappare e con un’auto a noleggio avevo deciso di attraversare tutto il Paese fino a Città del Capo, che per me voleva dire il cuore di Barnard e il cervello di Mandela. Giù, tra polvere e zanzare, osservando il parto di una nazione. La macchina mi mollò in prossimità del traguardo, quando già tutto era dolce e si intuiva, al fondo, l’oceano. Il Capo era un punto sulla carta (allora di quello era fatta una mappa): qui Buona speranza, più sotto l’ultima propaggine, Agulhas, e più sotto ancora... «Non c’è altro, uomo» «E questo puntino?» «Quella è stata una mosca».
Fermo al bordo della strada, la carta sul sedile, il cofano aperto che mandava fumo. Non avevo incontrato nessuno per cento chilometri.
Passò una jeep. Ne scese un boero ripieno di costolette e birra. Mi guardò perplesso.
«Da dove vieni?» «Johannesburg» «Perché?» «È un bel viaggio».
Aveva la testa nel motore, a quel punto: non sentì la risposta. Riemerse annunciando che bisognava cambiare un pezzo, mi avrebbe trainato in officina. Sbraitò un comando. Dal retro della jeep sbucò un nero, che eseguì quello e altri ordini, prima di tornare ad acquattarsi come un cane. Quando, a riparazione effettuata, cercai di dargli una mancia il boero me la tolse di mano dicendo: «Se li berrebbe». Poi, con gli stessi soldi, mi offrì birra e whisky. Eravamo davanti al Capo. Pensai che dovevo tornare.
Tredici anni dopo ero sulle stesse strade. Memore dell’insegnamento avevo noleggiato una jeep all’aeroporto di Città del Capo. Stavo rientrando dalla costa e mi ero tenuto una settimana per godere della miscela di quella città: mare e metropoli, quartiere islamico pacifico e colorato, slum che ancora non hanno spento le braci. Era passata una vita. Mandela era già malato. Governava Zuma, che aveva dato il meglio di sé come difensore, nelle partite di calcio alla prigione di Robben Island, quelle che Madiba seguiva dalle grate della sua cella. Il porto era diventato un centro commerciale, da lì partivano le barche dirette al penitenziario, dove un ex detenuto faceva da guida. Mangiavo in ristoranti asiatici a Camps Bay e la sera ascoltavo jazz africano nei locali di Long street. Solo anni dopo mi resi conto di aver sentito un disco di Sixto Rodriguez, più noto come Sugar Man e aver avuto una sensazione subliminale, una specie di splendore nella coda dell’occhio, come se avessi sfiorato Marilyn Monroe in un autobus affollato quando ancora si chiamava Norma Jean. Uscivo dal centro diretto alla Table Mountain. Erano le undici del mattino ed ero perfettamente sobrio. Il semaforo divenne verde e mi avviai lentamente. Un furgoncino giallo mi centrò in pieno. Esplosero sia l’air bag del volante che quello laterale: sembrava la battaglia dei pop corn. Appena mi ripresi scesi dalla jeep. Dal furgoncino erano sbucati in sei, più una nuvola di fumo. Stonati a quell’ora del mattino, gesticolavano come se ballassero, o forse viceversa. Sostenevano li avessi investiti e chiedevano rimborsi e mance. Le nostre vetture bloccavano l’incrocio. Si avvicinarono alcuni passanti che avevano assistito allo scontro. Arrivò un’auto della polizia. I passeggeri del furgoncino erano tutti neri. I passanti erano tutti neri. I poliziotti erano tutti neri. Mi aspettai che, all’unanimità, mi dichiarassero responsabile per solidarietà con gli investitori. Invece i passanti testimoniarono che ero stato centrato da un veicolo mal condotto che aveva «bruciato un rosso». I poliziotti verbalizzarono, zittendo i contestatori. Mi consegnarono un foglietto di carta a quadretti con su scritto la dinamica dell’incidente e la firma dell’agente perché lo dessi al noleggiatore a discarico dei danni.
«Questo basta?», chiesi.
«Ehi, questa è Città del Capo», rispose il poliziotto. «Abbiamo già fatto tanto, per tutto ci stiamo attrezzando».
Gabriele Romagnoli, la Repubblica 23/8/2015