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 2015  agosto 23 Domenica calendario

RAYMOND DEPARDON

PARIGI
Raymond Depardon, classe 1942, tra i più grandi fotografi e documentaristi della sua generazione, è rimasto un uomo di campagna. Nato da genitori contadini in una fattoria nella regione di Lione, dopo aver percorso il mondo e averlo raccontato con Leica e Rolleiflex, dopo essere stato dove la Storia accadeva — dall’Algeria al Vietnam all’Afghanistan, dall’Africa coloniale al Maggio’68 alla caduta del Muro, ma anche alla cerimonia dopo il suicidio di Jan Palach e alla sfilata di volti anonimi e attoniti al Central Park dopo l’assassinio di John Lennon, due corti leggendari — Depardon è tornato a casa. Dall’inizio del nuovo secolo filma e fotografa soprattutto la Francia: i Profils paysans, profili contadini, in tre puntate cinematografiche; il ritorno alla fattoria di famiglia nel film Quoi de neuf au Garet?; e l’ultimo documentario, Journal de France, un giro in camper lungo quattro anni attraverso il suo Paese, dal quale è nata anche la mostra fotografica “La France de Raymond Depardon” a Parigi nel 2010, e in parte la bellissima retrospettiva al Grand Palais nel 2013. Che il suo futuro fosse il passato remoto neanche lui poteva prevederlo. E adesso che passeggia per le stanze della galleria “Cinéma” — aperta al Marais dalla produttrice Anne-Dominique Toussaint — carezzando con sguardo sereno foto di malati mentali scattate nell’81, è capace di parlarne come fossero il presente. Le foto raccontano del manicomio veneziano sull’isola di San Clemente chiuso tardivamente negli anni Novanta, dopo la legge Basaglia, la 180, del 1978. «Ricordo che mi infilai dentro San Clemente senza permessi e cominciai a scattare. Il giorno dopo Basaglia mi mandò a chiamare. Andai a Trieste pensando: mi vorrà rimproverare per l’intrusione. Al contrario, mi spalancò le porte dei manicomi italiani dicendo: scatta più foto possibile, così finalmente vedranno e crederanno. Basaglia era un uomo elegante, affascinante, con una grande capacità di parlare in pubblico.
Un tribuno. Ero lì come reporter, ma lui, senza sapere nulla della mia vita, aveva immediatamente indovinato le mie origini, il mio punto debole».
Discrezione, pudore, nessuna aggressività: forse per queste qualità Raymond Depardon non ha mai avuto la fama internazionale che merita. Ma non sembra esserne frustrato.
«Ho il mio modo di fare foto. Ho la mia distanza, e la rivendico ». Mai stato sotto padrone. Con immagini fisse e in movimento ha raccontato ciò che voleva in assoluta libertà. Anche il 29 maggio 2012, quando nei giardini dell’Eliseo ha scattato la fotografia ufficiale del presidente Hollande — campestre, rassicurante, normale — che almeno fino al 2017 resterà appesa nelle trentaseimila sedi dei Comuni di Francia. Tra i venti e più documentari — molti dei quali senza commento parlato — Depardon ha fatto un film sul suo mestiere (Reporters, 1981), uno sulla giornata in un commissariato parigino (Faits divers, 1983), un paio sul sistema giudiziario francese (Délits flagrants, 1994, e “10e chambre, instants d’audience”, 2004) e, sei anni dopo San Clemente (visibile per intero su YouTube), uno nel pronto soccorso psichiatrico di un grande ospedale (Urgences, 1988). Molti i film sull’Africa, una delle sue mete preferite, e tra questi Afriques, comment ça va avec la douleur? (1996), domanda lunga quasi tre ore sulla relazione tra il dolore e l’immagine. Sempre un passo indietro, quasi senza ego, spesso confuso tra la folla. «Sono stato fortunato a nascere in una famiglia contadina. In campagna si ha un’idea di tempo diversa che in città, e questo mi ha molto aiutato per il cinema. In campagna non si ha fretta e io non ho fretta, anche se alle volte sono angosciato, come tutti. I miei genitori hanno subito capito che non avrei potuto lavorare la terra e non mi hanno costretto a essere qualcun altro. Ero in un altro mondo. Da ragazzo volevo solo andare al cinema. Il neorealismo italiano è stato il mio giardino segreto. La fotografia non mi interessava. Poi mi ci sono trovato dentro. Ho iniziato a fotografare le partite di calcio e gli amici mi dicevano: poi mi dai la foto? Grazie alle foto, esistevo. A sedici anni sono arrivato a Parigi come apprendista da un fotografo di Marsiglia: il signor Foucherand, aveva il negozio sull’Île Saint-Louis. Mi ha insegnato tutto. Con lui ho capito la differenza tra la fotografia e il cinema e che, per arrivare alle immagini animate, dovevo prima passare per quelle fisse. C’è chi dice che sono un miracolato perché il passaggio dalla foto al cinema riesce difficilmente. Ci sono tuttavia degli esempi: Kubrick era un fotografo, e anche Bresson. Quanto a me ho anche fatto film di finzione, ma sono storie dolci. Non posso fare cose troppo forti. Difendo un certo cinéma du réel, ma credo che per esprimersi si debba sempre passare attraverso la finzione. Allora imbroglio un po’, galleggio tra realtà e finzione». Da una fattoria al mondo, dalla fotografia al cinema. E dal bianco e nero al colore? «Sono gli amici ad avermi convinto a fotografare a colori. Hervé Chandès, direttore della Fondation Cartier, e mia moglie Claudine mi hanno detto: la Francia falla a colori, la Provenza falla a colori. I miei colori sono chiari, brillanti, mentre il mio bianco e nero è carbone, plumbeo. In fondo amo molto il bianco e nero. Avevo l’impressione di pensare in bianco e nero. Ma allo stesso tempo sono a colori. Insomma, sono un uomo del diciannovesimo secolo».
Depardon arriva a Parigi nel ’58. Ha sedici anni e in tasca il diploma della scuola dell’obbligo. Va a bottega e diventa l’artigiano che non ha mai smesso di essere. Nel ’59 è impiegato tuttofare all’Agenzia Dalmas. Nel ’60 è reporter al Festival di Cannes quando sono in competizione La dolce vita e L’avventura («Fellini fu applaudito e Antonioni fischiato. Oggi forse accadrebbe il contrario»). Nel ’66 con Gilles Caron («quando fu ucciso in Cambogia nel ’70, fu per me una perdita sconvolgente») fonda l’Agenzia Gamma. Nel ’79 entra a far parte della leggendaria cooperativa di fotografi della Magnum, e Magnum voleva dire Cartier-Bresson, ma anche Capa: due estetiche molto differenti. Mai stato ossessionato dal “momento decisivo”? «Quell’ossessione, molto francese, ha paralizzato non pochi fotografi. Io vengo dal fotogiornalismo e ho iniziato con piccole cose di attualità. Poi arrivo alla Magnum e scopro una specie di dogma, appunto il “momento decisivo” di Cartier-Bresson. Ma nel gruppo di giovani fotografi il nostro eroe era Capa. Trovavamo Cartier-Bresson un po’ intellettuale. Poi, conoscendolo, ho capito meglio. Aveva vissuto gli anni Trenta, quelli prima della guerra in cui erano tutti comunisti e tutti partivano dietro alle rivoluzioni. La verità è che quei fotografi lottavano contro la pittura, perché la pittura era dominante. Per disturbare la pittura hanno iniziato a tirare fuori questi piccoli apparecchi. A quei tempi non c’era grande differenza tra fotografo e pittore. Si era meno legati al fotogiornalismo. Oggi mi rendo conto che è una sciocchezza, questo concetto di fotogiornalismo. Ho fatto di tutto per avere una tessera stampa, ne andavo così fiero. Stampa francese !
Poi sono arrivato a New York e la tessera stampa non valeva più nulla. Lì la più importante era la tessera della polizia. No, il “momento decisivo” non è mai stato una mia ossessione». Lei sembra un uomo tranquillo, ma un fotografo non lo è quasi mai. È un essere complesso, spesso nevrotico, e quasi sempre ha accanto una donna che gli organizza lavoro e vita. È così anche per lei? «Mia moglie Claudine è molto discreta, ma mi ha portato il suono. È l’ingegnere del suono di tutti i miei film. Il suono mi ha permesso di staccarmi dall’immagine fissa e mi ha condotto nel cinema. Lei dice che sono uno dei pochi uomini che sanno ascoltare. Claudine vede il mio lavoro finito, ma non sceglie le fotografie di un libro; è con me su tutti i set, ma non viene al montaggio. In lei ho riconosciuto la parte femminile di me e l’ho messa nel mio cinema. Il cinema verità, le cinéma du réel , è femminile perché ascolta ed è un cinema nel quale non ci si deve muovere. Deve avere “virtù passive”, come una ragazzina silenziosa a tavola con la famiglia. Nessuno chiede la sua opinione, ma lei vede e ascolta tutto».
Laura Putti, la Repubblica 23/8/2015