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 2015  agosto 23 Domenica calendario

UN TENNIS WRITER TRA GLI ABORIGENI

LONDRA
Rimase scioccata, anche alla vista delle credenziali di Wimbledon senza biglietto. Salutai e me ne andai, soddisfatto di aver rivisto, ancora una volta, oggetti d’uso e dipinti insieme ai quali avevo passato molti giorni della mia vita, lontano dai courts. Era domenica, a Wimbledon si riposava, e non avevo resistito al richiamo della mostra del British sui miei amati aborigeni.
Capitano casi curiosi, nella vita. Non ci avevo mai troppo pensato, e iniziai a rimemorare.
La prima volta che avevo visto un aborigeno era stato grazie al mio amico giornalista Gigi Gianoli, della Gazzetta , invitato a sua volta da un amico, proprietario come molti australiani di un aereo, ad una visita non lontano da Melbourne, dove ci trovavamo per la finale di Davis, Australia-Italia 1971,ai tempi di Pietrangeli. Con mia vivissima preoccupazione eravamo atterrati nel deserto, non lontano da un gruppo di baracche, roba all’apparenza da zingari. Come eravamo scesi dal biplano, avevamo visto un gruppo di tipi dalla pelle scura, con il naso schiacciato, che però non erano negri, somigliavano ai tipi della Nuova Guinea, dov’ero stato per un articolo, prima della Davis. La mia sorpresa si accrebbe quando mi resi conto che quei tipi stavano dipingendo. Intingevano i pennelli nei colori acrilici, e componevano una specie di disegno astratto, seduti per terra, su una sorta di tela parallela al suolo. L’amico di Gigi, che intanto era stato festeggiato, mi spiegò che un tempo l’attività degli indigeni si svolgeva con colori e pigmenti ricavati da sabbia, rocce, vegetali. E che il disegno significava il territorio nel quale ci trovavamo, con i suoi luoghi sacri e gli Dei: una sorta di rappresentazione della Creazione, che i bianchi avevano definito Dreaming, Sogno. Fu uno choc, al quale non ero certo preparato, e il giorno dopo iniziai ad acquistare libri, e finii anche per farmi arrotolare un dipinto che ho ancora davanti a me, mentre scrivo. Da allora ho visitato musei australiani a Melbourne, Sydney, Canberra, Darwin. Ho più che simpatizzato con la deliziosa Evonne Goolagong, la prima tennista australiana capace di vincere addirittura Wimbledon. Ho avuto famigliarità con una agente, una delle prime, di pittori aborigeni, amicizia interrotta quando ho capito che era abilissima soprattutto nello sfruttare quei poveracci, per solito incapaci di sopravvivere in una civiltà che non è la loro, e che, dopo averli sterminati, sta alfine decidendo di accettarli. E ho conosciuto Bruce Chatwin ai tempi di The Songlines, e mi onoro di essere amico di Michael Wooldridge, che è stato Ministro degli Aborigeni. Da ultimo ho addirittura osato scrivere un romanzo dal titolo Australia Felix ( Fandango, 2012) in cui ho parlato tanto bene degli aborigeni, e tanto male dei colonizzatori, che un famoso editor di Melbourne lo ha rifiutato, indignatissimo.
Proprio per questo, e anche perché negli archivi di Repubblica permangono una trentina di prove che in Australia ci sono andato ogni anno, il mio caporedattore mi ha chiesto, già che ero lì, se gli scrivevo qualcosa su “Indigenous Australia”. Il primo aspetto evidente è che, dipinti e oggetti d’uso ritenuti artistici dai curatori (addirittura sette), non erano stati prodotti per una vendita — come ora accade dai tempi degli agenti — ma per necessità di sopravvivenza o di convinzione religiosa. La seconda è che, poiché la prima nave carica di soldati e detenuti britannici arrivò a Botany Bay nel 1788, i due dipinti di un pesce, e di un barramundi, tuttora non meno noto della nostra sogliola, vengono classificati tra i cento e gli ottomila anni fa: e, come un visitatore sconosciuto fianco a me, non potevo non domandarmi se fosse impossibile una datazione più esauriente. Seguivano lance in vari materiali, mai in metallo che gli abos non conoscevano, ornamenti nuziali realizzati soprattutto con conchiglie da abos pescatori, e insieme qualche testimonianza di mediocrissimi pittori europei, riguardanti la vita dei nativi, i loro primi sventurati contatti con i cosiddetti colonizzatori.
Quel che ho infine notato, è stata la presenza del primo pittore riconosciuto tale dalla società bianca, e addirittura dalla moglie del governatore del Victoria, Lady Huntingfield: Namatjira. La sua storia, che ho tentato di raccontare anche nel mio libro, è quella di uno straordinario personaggio, nato pittore, e via via riconosciuto tale dalla società bianca, ma anche coinvolto dal razzismo che finì per causarne la condanna e la carcerazione, con una finale ammissione di colpa e una successiva santificazione. Percorro il catalogo, e, oltre a Namatjira, non trovo John Mawurndjul, o Ginger Riley, secondo me i migliori tra i pittori contemporanei australiani. E mi dico: bellissima mostra per chi in Australia non c’è mai stato, dell’Australia non ha mai letto, e forse non ha mai amato questo sventurato popolo, vittima di noi bianchi che ne abbiamo raccolto le eccezionali vestigia, e le ammiriamo affascinati.
Gianni Clerici, la Repubblica 23/8/2015