Bernardo Valli, la Repubblica 23/8/2015, 23 agosto 2015
QUEI “LUPI SOLITARI” PRONTI A COLPIRE L’EUROPA DESTINATA A VIVERE NELLA PAURA
PARIGI
Sconvolti ma soprattutto confusi. Questo è il nostro stato d’animo quando accadono episodi come quello di venerdì pomeriggio, sul Thalys, il treno tra Amsterdam e Parigi. Un giovanotto di ventisei anni, carico d’ armi (AK47, pistola automatica, caricatori, pugnale), a un certo punto del tragitto estrae il suo arsenale da un sacco e si accinge a sparare sulle centinaia di viaggiatori. Il massacro non gli riesce perché viene immobilizzato da alcuni passeggeri insospettiti dal suo comportamento. La presenza casuale di una manciata di uomini coraggiosi, di varie nazionalità, tre americani, un britannico, già giustamente definiti eroi nelle loro rispettive capitali, supplisce l’inefficienza dei servizi di sicurezza mobilitati da anni. È senz’altro sciocco accusare di un fallimento l’intelligence. È confusa come noi, di fronte ai fenomeni di terrorismo individuale difficili o impossibili da prevenire. In Francia ci sarebbero circa mille salafisti, su sei milioni di musulmani, con tendenza jihadiste (in termini più brutali fedeli al Corano ma tentati dal mitra) e nella Parigi socialista si parla di creare un campo dove metterli per tenerli d’occhio. Una Guantanamo francese? Una nazione laica indaga sull’identità religiosa? Avviene già, ma non lo si riconosce. La sicurezza minaccia i principi. Rischia di diventare un’inquisizione. La disordinata offensiva jihadista in Occidente ha come obiettivo una società, ne decapita gli esponenti quando capitano a tiro, ma in realtà mette a dura prova la democrazia che non conosce e di cui detesta i principi.
Come difendersi dai terroristi solitari? Come prevenire gli attentati di Charlie Hebdo o della Porte de Vincennes? O dell’operaio che taglia la testa al padrone, l’ appende a un cancello, e tenta di far esplodere una fabbrica nei pressi di Lione? I terroristi solitari spuntano all’improvviso, sfuggendo alla sorveglianza dell’intelligence, che a fatti avvenuti, riconosce di avere i loro nomi negli archivi e di essere a conoscenza dei loro spostamenti in Medio Oriente. Il giovane marocchino del tremo Amsterdam-Parigi è stato in Siria. Come uno degli assassini di gennaio, a Parigi, era stato nello Yemen. E chi li ha armati di kalashnikov?
Ad ogni attentato si aumentano gli uomini dell’intelligence e si moltiplicano i controlli. Dopo il mancato massacro del Thalys si pensa di estendere alle stazioni ferroviarie le visite dei bagagli, come negli areoporti. Ma i terroristi individuali, spesso spontanei, benché ispirati dal Califfato, possono trovare tanti altri campi d’ azione. E possono emergere in qualsiasi momento, poiché spesso hanno una cittadinanza europea. E non sono impigliati in organizzazioni. In realtà il pericolo non va affrontato come capita in una guerra, anche asimmetrica. Il jihadismo, come si esprime da quando esiste il Califfato, ci sconvolge e confonde.
È evidente che non conoscendo, non capendo, il fenomeno riesce difficile combatterlo o predirne il futuro. Abu Musab al-Zarqawi l’ispiratore del jihadismo che adesso imperversa in Iraq e in Siria, che ha gettato le basi in Libia, che ispira i rapitori di donne in Nigeria, e che ha buone radici nello Yemen, e in tante altre contrade del Medio Oriente, e che puntualmente esplode in Europa, quando era in vita veniva descritto come uno spaccone e un delinquente. Un bevitore e un ignorante. Ma il suo prestigio era grande dopo il lungo soggiorno in Afghanistan e nelle prigioni giordane. Era un combattente audace e spietato. Qualità che gli valsero la stima dei partigiani di Saddam Hussein dispersi e datisi alla macchia dopo l’invasione americana del 2003. Zarqawi diventò uno dei capi della guerriglia contro gli sciiti e gli americani e si rese subito famoso per le pubbliche esecuzioni degli ostaggi occidentali. Ucciso da un bombardamento americano nel 2006 Zarqawi è diventato un mito. Ed anche un esempio. Lo resta ancora oggi per il Califfato di cui è stato il precursore. Anche per quel riguarda la ferocia. Il marocchino del treno Amsterdam-Parigi ne venera senz’altro il nome. Ahmed el-Tayeb, il grande imam di Al Azhar, una delle più rispettate autorità intellettuali e spirituali dell’ Islam sunnita, ha definito Zarqawi e i suoi discendenti “ un gruppo satanico, ai seguaci del quale dovrebbero essere amputati gli arti o essere crocifissi”. Neppure Al Qaeda sopportava la pubblicità data dal Califfato alle esecuzioni e alle stragi. Né riusciva comprensibile la sua teologia. Anche perché non era decifrabile l’ alleanza creatasi tra gli ex rappresentanti del Baas, il partito laico di Saddam Hussein, gli ufficiali dell’esercito iracheno sconfitto dagli americani, e il movimento sufi tradizionalmente rifiutato dai salafiti. Non erano insomma credibili i principi religiosi sbandierati dal Califfato, apparivano improvvisati, spudorati, non difendibili dagli studiosi dell’Islam.
Ad esempio, fino a cinque anni fa, nessun teorico salafita difendeva l’idea di rintrodurre la schiavitù, ma di fatto lo Stato islamico la impone dove governa, a Mosul, a Ramadi e da poco anche a Palmira. Resta un enigma come possa affascinare un’entità dominata dalla violenza e senza un richiamo religioso credibile. Una delle spiegazioni più diffuse è che il Califfato attiri i frustrati, i delusi, i diseredati in cerca di un sostegno. La verità è che aderiscono allo Stato islamico uomini e donne di paesi poveri come lo Yemen e l’ Afghanistan, ma anche di paesi ricchi, tra i più ricchi del mondo, come il Qatar e la Norvegia. E questo vale per cittadini francesi, inglesi, italiani musulmani di origine o convertiti. Da qui la nostra confusione. Ma forse il terrorismo è diventata un’ideologia.
Bernardo Valli, la Repubblica 23/8/2015