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 2015  agosto 25 Martedì calendario

UN FANTASMA S’AGGIRA TRA I MAGAZZINI RAI

Sono molte estati che alle venti e trenta, appena sfuma la sigla di coda del Tg1, nelle case sferraglia per decine di minuti il fantasma dei magazzini Rai, trascinando le sue lunghe catene di scenette arrugginite. È un vampiro digitale che gozzoviglia con i resti dei comici e dei cantanti di successo. Prima, il mostro di viale Mazzini si faceva chiamare Da da da, poi venne la grandiosa non-idea della Rai, fare senza fare.
Ne nacque Supervarietà che assieme al fervido Da da da è un titolo shakespeariano, soprattutto messo a confronto col nomignolo di ora: Teche teche te. Più che una trasmissione, un programma in Bianco e Neuro. Uno stalker che i telespettatori stremati dall’ipnosi serale non hanno la forza di denunciare al numero arancione dei telespettatori perseguitati. Basta. Sì, basta con la comicità e la canzone che fu. Il canone per Sordi e Villa lo hanno già pagato i nostri avi, è assurdo che dobbiamo pagarlo anche noi.
Ma siamo lì in poltrona, affranti dal caldo e dal freddo che si alternano ogni venti minuti. Siamo su Teche teche te perché il cane ha addentato un tasto del telecomando. Sono le venti e trentuno e la tivvù ti spappola in faccia cinquanta minuti di passato antico e recente, però con rade pause pubblicitarie. Sono pochi dentifrici e sciampo disposti a comprare uno spazio dove ci sono solo artisti defunti. Ormai i telespettatori dovrebbero sapere di questo scempio serale, ma chi se ne ricorda. Non è che tutte le sere un poveretto può ricordarsi il palinsesto e alle venti e trenta invece di guardare la Rai si affaccia alla finestra perché se vede un gatto azzoppato è più allegro di Teche teche te. E così ogni sera ricorre il due novembre. Dovrebbero esorcizzare gli autori. O tentare lo scongiuro pubblico e chiamare la trasmissione Teche tiè.
Basta con questo continuo varietà e con le canzoni di mezzo secolo fa: Se Little Tony e Walter Chari sono stanchi morti, il motivo c’è. Bramieri appare dimagritissimo in bianco e nero, con il corpo di un’acciuga limata. Quando racconta una barzelletta e pensi che fu costretto a lasciare suo incarnato florido e dimagrire, non ridi. E c’è la Pavone col Geghegè: tutte le sere “abbiamo un riff che fa così”; il Tuca Tuca con la Carrà in pantaloni a campana e Sordi che ridice: spaghetti mi avete provocato e io ve magno. Raimondo Vianello fa un allampanato ballerino spagnolo. Monica Vitti ricanta “Dove vai se la banana noi ce l’hai” e non la rivediamo mai nella Notte di Antognoni. Innumerevoli poi i Walter Chiari e gli Aldo Fabrizi, la Bertè giovanissima, il trio Marchesini, Solenghi e Lopez nei loro Promessi Sposi. Tutti sono così timbrati dentro di noi che non serve ritrasmetterli. Lasciateci la libertà di ricordarli quando capitano nel nostro petto. La parte allegra è la prima interruzione pubblicitaria. Sono passati tre minuti dall’inizio e il pubblico è già sfinito. Quando finisce questa sbobba, si domanda il pubblico. Ma bisogna capirli: hanno appena visto Claudio Villa che imita i Rokes con un basco da motociclista e la gente teme l’arrivo di una razza di alieni che si nutre di segatura. A proposito, pare che il titolo Teche teche te sia nato durante un brain storming tra dirigenti Rai ubriachi di gazzosa.
Ma c’è un’origine reale. Come direbbe il dottor Freud, la scena madre Teche teche te si annida nella profondità delle cantine di viale Mazzini. Sembra che qui, dalla fondazione dell’azienda, viva un funzionario che dorme sulle bobine di Studio Uno e ha un cuscino imbottito con le barzellette di Carlo Dapporto. La sua vita si accende quando gli uscieri aprono la finestrella del seminterrato e finalmente ha un sentore di tubi di scappamento. La verità dolce è che Teche teche te è venuto fuori perché è uno di quei gridolini che fanno sorridere i neonati; la verità feroce è che Teche teche te è il suono di chi batte i denti dalla paura; la verità vera è che Teche teche te è un gioco di parole nato dalla parola “teche”, i magazzini dove la Rai conserva tutto quello che ha mandato in onda dal 1954: telegiornali, varietà, sceneggiati. Non vi inganni il suono gentile del titolo, Teche teche te. Dietro non c’è un mondo mite da asilo nido, ma centinaia di artisti trasmessi e ritrasmessi perché ormai non possono dire niente.
La cosa positiva in cinquanta minuti avviene prima di quella che potremmo chiamare trasmissione se non fosse un potage di transistor. È la vista di Giorgino, lo speakerino del Tg1. Quando finisce il notiziario, dopo avere detto per mezzora Merkel e presidente di regione, mormora come una brezza: “E ora vi lascio al teche teche te”. Come se fossimo milioni di neonati e dicesse vi lascio al picci picci e vi saluto col mimmi mimmi.