Ugo Bertone, Libero 25/8/2015, 25 agosto 2015
IL CROLLO CINESE TIRA GIU’ L’EUROPA, MA CHI RISCHIA DI PIU’ È BERLINO
Borse, valute e materie prime hanno vissuto ieri la seduta più difficile e sofferta del millennio, ancor più drammatica delle giornate che hanno fatto seguito al tracollo di Lehman Brothers. Ma stavolta l’epicentro del terremoto, che ormai dura da più di una settimana non è la crisi del capitalismo, bensì la sofferenza della seconda economia del pianeta, che sembra sfuggita di mano dalla pur salda guida del partito Comunista, incapace di imporre la sua legge di fronte ai mercati. 1. Lo tsunami si è scatenato ieri mattina, all’alba in Italia, quando l’indice di Shanghai è franato dell’8,5% poco sopra Shenzhen a -7,6%. L’onda delle vendite ha poi investito Tokyo -4,6% e Taiwan -7,7% (il peggior calo di sempre). Ma il tracollo non ha risparmiato, in pratica, alcun listino o alcuna valuta d’Oriente. 2. L’apertura europea non è stata meno drammatica: le principali blue chips italiane, da Fiat Chrysler a Generali, sono state subito sospese per eccesso di ribasso. Copione simile a Parigi e Francoforte, mentre alla City si accanivano le vendite su petrolio e metalli. 3. A fine mattinata i listini europei hanno provato a risollevare la testa, riducendo le perdite poco sopra il 2 per cento. Tutto finito? Niente affatto. Il terrore è tornato, più forte di prima, con l’apertura di Wall Street: l’indice S&P 500 ha aperto con un ribasso del 5,2%, il Dow Jones ha lasciato sul terreno più di mille punti. Di riflesso, le Borse europee si sono avvitate al ribasso. Piazza Affari, così come Parigi, hanno registrato ribassi superiori al 7 per cento, in linea con Francoforte e Londra. Alla fine, l’indice italiano chiude a -6%, peggior seduta da 4 anni, sfruttando in piccola parte il rimbalzo di Wall Street che ha limitato i danni nel tardo pomeriggio sotto il punto percentuale con variazioni da brivido: Apple, scesa fino al 13%, è passata addirittura in terreno positivo. 4. A completare il quadro, c’è il rovescio del petrolio, scivolato a 37 dollari nella versione Usa, sotto i 43 il Brent europeo. Intanto, sul fronte delle valute, continua il tracollo degli emergenti, ma il dollaro perde colpi sulle monete rifugio, yen ed euro. Fin qui la cronaca di una giornata ad altissima tensione, in grado di sorprendere perfino gli investitori più esperti, veterani temprati dai più celebri “lunedì neri” della storia a partire dall’ottobre 1987. Ma rispetto al passato, c’è un protagonista nuovo, il più ingombrante di sempre: la Cina. 1. Per capire la violenza della reazione di questi giorni occorre tener conto di quanto è successo negli ultimi 12 mesi, quando il Partito ha deciso di poter consentire ai cinesi di arricchirsi in Borsa. Centinaia di migliaia di risparmiatori, del tutto digiuni di mercati finanziari, hanno puntato sui listini che hanno registrato rialzi superiori al 100%, grazie ad acquisti spesso finanziati a credito. Quando è scoppiata la bolla, il Partito ha tentato di salvare i guadagni di risparmiatori (e di speculatori legati per lo più ai vertici) con interventi autoritari: sospesi i titoli in odore di ribasso, proibite per decreto le vendite, autorizzati gli acquisti d parte di società pubbliche per l’importo di 144 miliardi. Da ieri in Borsa possono (anzi, devono) comprare i fondi pensione. 2. L’intervento non è servito quasi a nulla. Anche perché, nel frattempo, è intervenuta la svalutazione dello yuan. Una mossa, pur ragionevole, che ha avuto l’effetto di convincere i mercati che la congiuntura dell’economia cinese era peggiore di quanto già temuto. Alimentare le tensioni, infine, ci ha pensato l’inazione dei vertici ieri e nel week end. I mercati si aspettavano mosse forti per rilanciare l’economia con nuove iniezioni di denari. Al contrario, Pechino ha taciuto: i 200 miliardi di dollari investiti in Borsa e sui mercati dei cambi in questi giorni non sono serviti a nulla. E il presidente Ji Xingping non ha voglia di dilapidare le riserve senza avere una strategia ben definita. 3. La crisi cinese ha investito il resto del pianeta. La Federal Reserve, che sembrava orientata ad aumentare i tassi a settembre dopo sette anni di costo del denaro a quasi zero, potrebbe rivedere la sua decisione. Va in questo senso il consiglio di Lawrence Summers, l’ex ministro del Tesoro molto vicino a Barack Obama: una mossa sbagliata potrebbe non solo compromettere la ripresa, comunque frangile degli Usa. Ma anche affondare le speranze democratiche per le elezioni 2016. 4. La frenata sui tassi Usa ha provocato il rialzo dell’euro, salito fino a 1,16. Non è una bella notizia per l’Eurozona: l’euro forte può intralciare l’export verso gli Usa, in pratica l’unica area in crescita. Intanto la Germania, a partire dai colossi dell’auto, cerca di fare i conti con la crisi del cliente cinese, il più importante e redditizio negli ultimi anni per Audi, Bmw o Mercedes. L’impatto sarà comunque pesante, non solo perché i cinesi stanno già comprando meno ma perché i profitti in euro, dopo la discesa dello yuan, si ridurranno di del 3-5%. 5. Le difficoltà tedesche si rifletteranno anche sulle molte aziende italiane legate al ciclo di produzione dell’industria tedesca, automotive in testa. Ma c’è un aspetto positivo: la Germania ha, d’ora in poi, tutto l’interesse a sostenere il Qe di Mario Draghi. Svanisce così il rischio di uno stop al programma della Bce, come si auguravano alla Bundesbank. Ora però, tocca al made in Italy riuscire a vendere un cachemire o, meglio, una Ferrari in più negli Usa per compensare i compratori cinesi, costretti loro malgrado a fare economie.